La mozione di censura contro l’Iran, approvata mercoledì a larga maggioranza dal Consiglio dei Governatori dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) è l’ennesima dimostrazione di come l’atteggiamento degli Stati Uniti e dell’Europa rappresenti l’ostacolo maggiore al ripristino dell’accordo sul nucleare della Repubblica Islamica (JCPOA). Le accuse rivolte a Teheran sono a dir poco discutibili e riflettono in grandissima parte l’agenda israeliana, ma rischiano di diventare un nuovo elemento di scontro in grado di complicare i negoziati in corso da oltre un anno a Vienna.

 

A presentare la denuncia, la prima dal 2020, sono stati propri i quattro paesi occidentali che fanno parte del gruppo impegnato nelle trattative con l’Iran (USA, Francia, Gran Bretagna, Germania). La questione riguarda la presenza di tracce di “materiale nucleare” in tre strutture “non dichiarate”, per le quali le autorità iraniane non avrebbero ancora fornito spiegazioni convincenti. Il governo di Teheran sostiene invece di avere già dato risposta scritta a tutte le domande dell’AIEA e sottolinea perciò la  natura interamente politica della mozione. A favore dell’Iran hanno votato solo Russia e Cina; India, Pakistan e Libia si sono astenuti e tutti gli altri 35 membri del Consiglio hanno appoggiato la mozione.

Sotto la lente dell’AIEA ci sono anche le attività di arricchimento dell’uranio che la Repubblica Islamica ha ripreso sforando i limiti previsti dal JCPOA dopo che l’amministrazione Trump lo aveva abbandonato unilateralmente nel 2018. Questa seconda accusa è ugualmente strumentale, perché, secondo quanto previsto dallo stesso JCPOA, Teheran ha facoltà di svincolarsi dai limiti imposti al proprio programma nucleare se a violarlo per primo è un altro dei firmatari dell’accordo.

Un’analisi pubblicata dalla rivista on-line del Quincy Institute di Washington (Responsible Statecraft), ha spiegato che la risoluzione approvata in questi termini in sede AIEA è una “utile distrazione” per “spostare sull’Iran le responsabilità dello stallo delle trattative attorno al JCPOA”. Responsabilità che sono invece tutte dell’Europa e, soprattutto, dell’amministrazione Biden. I negoziati di Vienna per il ristabilimento dell’accordo sul nucleare sono appunto congelati da svariate settimane e il motivo principale sembra essere il rifiuto da parte americana di togliere dalla lista delle organizzazioni terroristiche i Guardiani della Rivoluzione iraniani.

Questo provvedimento era stato deciso da Trump per rendere più complicata una futura rinegoziazione dell’accordo, come sta infatti avvenendo. Dal punto di vista logico, la misura non ha alcun senso né di essa ci sono precedenti, visto che a essere colpito è un organo di uno stato sovrano che nulla ha a che fare con il terrorismo. I problemi di Biden in merito alla designazione dei Guardiani della Rivoluzione sono di natura politica, perché una mossa che venga incontro alle legittime richieste iraniane scatenerebbe reazioni molto dure tra i falchi di Washington, oltretutto in un anno elettorale.

Per quanto riguarda la mozione di censura di questa settimana, l’irritazione di Teheran è dovuta anche alla pessima gestione della vicenda da parte del direttore generale dell’AIEA, Rafael Grossi. Il diplomatico argentino settimana scorsa si era recato in visita in Israele, dove aveva incontrato il primo ministro Naftali Bennett. Grossi aveva in seguito riassunto sul suo account Twitter i contenuti del vertice, sostenendo come se nulla fosse di avere discusso del comportamento dell’Iran in violazione dei propri impegni sul nucleare.

Bennett aveva a sua volta messo in guardia il capo dell’AIEA dalle azioni iraniane, volte a “sviluppare un’arma nucleare, ingannando il mondo con menzogne e false informazioni per nascondere le operazioni in corso”. Ancora, Grossi aveva enfatizzato l’importanza delle misure previste dall’AIEA e dal Trattato di Non-Proliferazione Nucleare per la pace e la sicurezza globale.

Lo scambio di opinioni appena descritto ha oggettivamente dell’incredibile. Israele è tra i paesi non firmatari del Trattato di Non-Proliferazione, a differenza dell’Iran, e com’è noto detiene un numero imprecisato di ordigni nucleari senza averli mai dichiarati. Ovviamente, lo stato ebraico non è mai stato nemmeno oggetto di ispezioni internazionali, mentre l’Iran nel solo 2020 ha accolto per ben 426 volte gli ispettori dell’AIEA.

La visita ultra-provocatoria in Israele di Grossi non solo trasforma in una farsa il diritto internazionale, ma dimostra anche che i negoziati sul JCPOA e le discussioni sul programma nucleare iraniano rischiano di diventare poco più di una commedia al servizio degli interessi di Israele. Il fatto che il direttore dell’AIEA si sia recato a Tel Aviv pochi giorni prima della riunione del Consiglio dei Governatori a Vienna conferma inequivocabilmente che il nuovo attacco contro l’Iran è stato quanto meno coordinato con il regime sionista. Tanto più che le accuse rispolverate circa il materiale contaminato raccolto in Iran derivano da informazioni, di provenienza più che dubbia, che sempre Israele aveva fornito alle potenze occidentali e all’AIEA.

La Repubblica Islamica aveva peraltro chiuso ogni controversia sul suo programma nucleare con la stipula del JCPOA nel 2015 e, anche dopo lo strappo di Trump tre anni più tardi, ha continuato a collaborare con gli ispettori internazionali, come aveva confermato tra l’altro la dichiarazione congiunta emessa lo scorso mese di marzo in occasione della visita a Teheran dello stesso Grossi. Il superamento dei limiti alle operazioni di arricchimento imposte dal JCPOA, ancorché legittimo, era iniziato oltretutto dopo oltre un anno dall’abbandono di Trump, cioè solo dopo che era risultata evidente l’incapacità dell’Europa di tenere in vita l’accordo in maniera indipendente dagli USA.

C’è da chiedersi in definitiva quali siano gli obiettivi di USA, Francia, Gran Bretagna e Germania, i cui governi sostengono da un lato di volere tornare agli equilibri stabiliti dal JCPOA, mentre dall’altro hanno promosso una mozione che rischia di far naufragare definitivamente le trattative. Il sospetto fondato è che la Casa Bianca, assecondando l’alleato israeliano, stia cercando una “exit strategy” dai negoziati di Vienna dopo avere preso atto dell’impossibilità politica, principalmente per ragione domestiche, di raggiungere un accordo con l’Iran.

Non potendo ammettere le proprie responsabilità per il nuovo fallimento, l’amministrazione Biden intende attribuire tutte le colpe alla Repubblica Islamica, alimentando un clima di ostilità nei confronti di quest’ultima anche attraverso una risoluzione di condanna di un organo delle Nazioni Unite. Se ciò dovesse corrispondere al vero, è possibile che a breve il finto caso delle mancate risposte iraniane alle richieste di chiarimento AIEA venga inviato al Consiglio di Sicurezza ONU.

Il governo iraniano si trova comunque oggi in una posizione decisamente più solida rispetto a sette anni fa e non sembra essere disposto a fare passi indietro sull’avanzamento del programma nucleare a scopi civili. La fermezza di Teheran dipende anche dalla realtà di un paese ben avviato sulla strada dell’integrazione euro-asiatica e in grado di reggere in modo sempre più efficace l’urto delle sanzioni occidentali.

Coerentemente con questo scenario, l’Iran ha subito risposto alla mozione approvata a Vienna, sia pure nel rispetto dei propri impegni internazionali. Mercoledì è arrivata infatti la notizia della disattivazione di alcune telecamere di sorveglianza che registrano le attività di uno dei propri siti nucleari. Questo programma era stato concordato con l’AIEA ed è un'ulteriore prova della disponibilità iraniana a collaborare con gli organismi internazionali. Se altri provvedimenti potrebbero essere adottati nel prossimo futuro, la Repubblica Islamica ha assicurato che le telecamere che rientrano nei piani di controllo previsti dal Trattato di Non-Proliferazione, pari all’80% del totale, continueranno invece a funzionare regolarmente.

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