I governi di Cina e Giappone si sono accordati questa settimana per l’istituzione di una linea diretta di comunicazione che dovrebbe favorire la de-escalation delle tensioni nel caso una situazione di crisi dovesse far precipitare i rapporti tra le due potenze. Il gesto di distensione arriva in un momento segnato dal deliberato aumento delle pressioni su Pechino da parte di Tokyo, in parte come conseguenza delle richieste americane e in parte sull’onda della retorica ultra-nazionalista che ha accompagnato le recenti vicende elettorali nipponiche.

 

La creazione della “hotline” dovrebbe servire a garantire un contatto costante tra i vertici militari dei due paesi ed è il risultato del summit in videoconferenza di lunedì scorso tra i ministri della Difesa di Cina e Giappone, rispettivamente Wei Fenghe e Nobuo Kishi. L’iniziativa è vista come il completamento di un’intesa, raggiunta già nel 2018, che prevedeva il lancio di un sistema di comunicazione bilaterale volto appunto a evitare scontri accidentali sul fronte aereo e marittimo. Salvo imprevisti, la nuova linea sarà operativa entro la fine del 2022.

Oggetto principale delle discussioni e della proposta avanzata dai due ministri sono le isole Senkaku (Diaoyu per la Cina), situate a ovest dell’arcipelago giapponese di Okinawa, dalla cui prefettura dipendono, e contese dai due paesi, nonché da Taiwan. I riferimenti alle Senkaku/Diaoyu sono stati infatti molteplici sia nel corso del vertice tra Wei e Kishi sia nelle dichiarazioni successive dei due ministri. Gli avvertimenti di entrambi riguardo le isole sono apparsi anzi poco coerenti con la misura distensiva concordata durante il vertice a distanza.

In sostanza, il ministro della Difesa giapponese ha denunciato quelle che ha definito “incursioni” cinesi nelle acque territoriali delle isole, invitando Pechino ad astenersi da simili provocazioni. La sua controparte, invece, ha lasciato intendere che la Repubblica Popolare ritiene di avere diritto a esercitare la propria sovranità sulle Senkaku/Diaoyu, mentre ha a sua volta definito inaccettabile la recente esercitazione militare giapponese che ha simulato la riposta a un’eventuale invasione nemica delle isole.

Le manovre del Giappone sono state inquadrate correttamente nello scenario strategico più ampio da un commento della testata on-line governativa cinese Global Times. L’analisi, pubblicata dopo i colloqui a distanza di lunedì, ha spiegato che l’esercitazione “rivela le ambizioni militariste destrorse del Giappone e la mancata riflessione sulla [lezione della] storia” da parte di questo paese. Le prove di guerra rappresentano quindi una “ovvia provocazione diretta contro la Cina”, da collegare agli sforzi di Tokyo per favorire la strategia americana di contenimento di Pechino.

Mentre il Giappone e ancor più gli Stati Uniti continuano a puntare il dito contro la Cina e la presunta aggressività di questo paese nel promuovere i propri interessi e le proprie rivendicazioni territoriali, le responsabilità dell’innalzamento delle tensioni in Asia orientale negli ultimi anni sono da attribuire piuttosto e in larga misura a Washington. Da parte cinese è chiaro il desiderio di mantenere la stabilità attorno alle questioni più calde che stanno alimentando lo scontro con gli USA e i loro alleati. Il ministro Wei lo ha ribadito dopo il vertice con Kishi facendo appello alla creazione di un meccanismo per “gestire e tenere sotto controllo i rischi in maniera congiunta”.

Il governo cinese non ha in definitiva colpe particolari nell’evoluzione degli eventi che stanno caratterizzando i vari teatri di crisi nella regione, tutti più o meno da ricondurre alla crescente rivalità tra Washington e Pechino. Gli Stati Uniti, almeno a partire dall’amministrazione Obama, hanno invece soffiato deliberatamente sulla fiamma di conflitti in cui la Cina è coinvolta e che per decenni erano stati di bassa intensità, facendoli esplodere fino al livello di guardia con un obiettivo ben preciso.

In questo modo, cioè, Pechino viene dipinto come l’aggressore nei confronti di altri paesi meno potenti che necessiterebbero dunque del sostegno americano. Washington può così promuovere una campagna di militarizzazione sia in modo diretto in funzione di accerchiamento della Cina sia spingendo i partner nella regione ad allinearsi ai propri obiettivi strategici, tramite una corsa agli armamenti e la partecipazione a dispositivi multilaterali “difensivi” come il cosiddetto “Quad” (USA, Australia, Giappone, India) o il più recente “AUKUS” (Australia, Gran Bretagna, USA).

Resistenze e ambiguità non sono tuttavia assenti nei paesi sui quali gli Stati Uniti contano per attuare la strategia di contenimento della Cina. Le classi dirigenti di paesi come Giappone, Australia, Corea del Sud o Filippine sono infatti spesso divise sull’opportunità di assumere un atteggiamento ostile verso Pechino e di assecondare in tutto e per tutto la linea dettata da Washington. La ragione di ciò è da ricercare solo in parte nei timori per le conseguenze devastanti che un conflitto aperto con la Cina avrebbe su potenze di livello “medio” che si trovano geograficamente in prossimità della Repubblica Popolare.

Un ruolo maggiore lo giocano piuttosto i legami economici tra Pechino e molti paesi asiatici e dell’Oceania che, pur essendo alleati degli USA, hanno la Cina come principale partner commerciale o come prima fonte di investimenti dall’estero. Questa contraddizione è emersa anche nel caso dell’accordo di questa settimana per l’istituzione di una “hotline” tra Cina e Giappone, annunciata, nonostante la retorica non del tutto amichevole, dopo un’altra decisione con la quale il governo di Tokyo aveva preso le distanze dall’alleato americano.

Il primo ministro Fumio Kishida aveva respinto l’ipotesi del “boicottaggio diplomatico” delle Olimpiadi invernali che si disputeranno a Pechino nel mese di febbraio. Questa misura è stata promossa dall’amministrazione Biden ufficialmente come ritorsione nei confronti di quelle che ritiene essere sistematiche violazioni dei diritti umani a Hong Kong e nella regione a maggioranza musulmana dello Xinjiang.

Le denunce e gli scrupoli americani in questo senso sono in ogni caso strumentali e il “boicottaggio”, che non riguarda comunque gli atleti ma solo l’invio di politici o diplomatici ad assistere alla cerimonia di apertura e allo svolgimento delle gare, rappresenta un altro tassello della strategia di demonizzazione della Cina. Pechino, peraltro, ha anticipato le mosse americane decidendo di non invitare nessun rappresentante del governo di Washington né degli altri paesi che hanno ugualmente annunciato il “boicottaggio”, come Canada, Australia e Gran Bretagna.

Per quanto riguarda Tokyo, è stata decisa appunto una posizione più sfumata. Come la Corea del Sud, anche il Giappone ha preferito non utilizzare la definizione di “boicottaggio diplomatico”, ma il governo si limiterà a inviare ai giochi dirigenti sportivi di alto livello invece che personalità politiche. La decisione, presa in primo luogo per evitare nuove polemiche e un ulteriore deterioramento dei rapporti con Pechino, riflette l’equilibrismo giapponese di necessità davanti alla sfida USA-Cina. Allo stesso tempo, essa riflette anche le posizioni contrastanti sulla questione all’interno del partito Liberal Democratico al potere, con la fazione dei “falchi”, che fa capo all’ex premier Shinzo Abe, in netto contrasto con la linea più morbida preferita dall’attuale primo ministro Kishida.

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