La guerra degli Stati Uniti contro lo Stato Islamico (ISIS) in Iraq e in Siria tra il 2014 e il 2019 è stata, secondo la versione ufficiale, una sorta di modello esemplare di battaglia del ventunesimo secolo, condotta in nome di una causa giusta e con strumenti di incomparabile precisione per limitare al massimo il numero di vittime tra la popolazione civile. Che questa tesi fosse pura propaganda era noto fin dall’inizio, quanto meno al di fuori delle redazioni dei media “mainstream”, ma nei giorni scorsi lo ha confermato ulteriormente una nuova rivelazione proprio di una testata ufficiale come il New York Times, che ha raccontato nel dettaglio le azioni deliberatamente criminali delle forze speciali USA d’avanguardia nella lotta all’ISIS in Medio Oriente.

 

La vera e propria squadra della morte impiegata sul campo in Iraq e soprattutto in Siria era nota col nome di “Talon Anvil”. Si trattava di un’unità, la cui esistenza non era nemmeno riconosciuta ufficialmente, della cosiddetta “Delta Force”, operante all’interno della “Task Force 9”, incaricata di supervisionare le operazioni di terra contro l’ISIS. “Talon Anvil” svolgeva i propri compiti senza considerare le regole nominalmente restrittive del Pentagono per minimizzare i “danni collaterali”, ordinando bombardamenti, in larga misura con velivoli senza pilota (droni), risultanti molto spesso in massacri di civili, incluse donne e bambini.

Il lungo rapporto pubblicato dal New York Times si basa sulla testimonianza di quattro anonimi ufficiali delle forze armate americane che avevano collaborato o assistito da vicino alle operazioni di “Talon Anvil”. Militari e agenti dell’intelligence avevano segnalato in più occasioni abusi e crimini commessi da questi uomini delle forze speciali, ma praticamente in ogni occasione i loro superiori avevano fatto finta di nulla, declinando qualsiasi procedimento punitivo o anche solo indagini sui gravissimi fatti portati alla loro attenzione. Il livello di terrore causato da “Talon Anvil” è tale che, come sostiene il Times, anche molti ufficiali e agenti della CIA, cioè uomini a loro volta appartenenti a istituzioni che ricorrono come norma a metodi criminali, avevano finito per lamentarsi più volte con il comando delle Forze Speciali per via del ripetersi di bombardamenti non motivati e del moltiplicarsi di vittime innocenti.

Sulla carta, la squadra speciale citata dal Times poteva contare su parecchi strumenti per raccogliere le informazioni necessarie a individuare i bersagli dell’ISIS, dalle soffiate di forze alleate sul campo alle intercettazioni di comunicazioni elettroniche fino alle riprese effettuate dai droni con compiti di sorveglianza. Nella fase iniziale della guerra ai jihadisti in Iraq e in Siria, tuttavia, non erano arrivati risultati particolarmente eclatanti. A partire dal 2017, così, i responsabili delle operazioni della “Delta Force” avevano trovato il modo per velocizzare le autorizzazioni per i bombardamenti richiesti, sostenendo cioè che praticamente ogni operazione era di natura “difensiva”.

Le regole di ingaggio dell’operazione “Inherent Resolve” contro l’ISIS erano infatti molto più blande per le azioni difensive rispetto a quelle offensive. Per queste ultime vi erano numerosi paletti che dovevano appunto servire a limitare le morti di civili, mentre per le prime la giustificazione di un attacco imminente dei militanti armati contro forze alleate sul campo consentiva operazioni più rapide e di fatto senza il controllo delle autorità superiori né la valutazione delle informazioni di intelligence raccolte. Virtualmente ogni incursione richiesta da “Talon Anvil” era così motivata da ragioni di “auto-difesa”, malgrado le operazioni di guerra fossero anche a molti chilometri di distanza, e la conseguenza è stata una strage dopo l’altra di civili.

Il New York Times ricostruisce tre operazioni particolarmente cruente tra le moltissime condotte dagli assassini di “Talon Anvil”. Il primo caso si riferisce all’autunno del 2016, quando le forze speciali americane stavano osservando tre uomini che portavano sacchi di tela mentre lavoravano in un oliveto nei pressi della città di Manbij, in Siria. Nessuno di loro aveva con sé armi e nell’area non erano in corso combattimenti. I responsabili delle operazioni avevano però insistito che si trattava di “nemici combattenti” e tutti e tre sarebbero stati uccisi da un missile lanciato da un drone.

Una tragedia ancora più grande fu quella del giugno 2017 a Raqqa, la più importante città controllata in quel periodo dall’ISIS. I civili stavano fuggendo dai combattimenti cercando di attraversare il fiume Eufrate con imbarcazioni di fortuna. Per la “task force” USA, invece, erano militanti che dovevano essere colpiti. La pioggia di missili che seguì su svariate imbarcazioni avrebbe provocato la morte di almeno 30 civili, inclusi non pochi bambini, i cui corpi furono osservati galleggiare sulle acque del fiume.

Il terzo massacro raccontato dal Times avvenne a inizio marzo 2017. Una mattina prima dell’alba, “Talon Anvil” decise di inviare un drone sopra la località di Karama per portare a termine un attacco che avrebbe dovuto indebolire le posizioni del nemico in previsione di un’offensiva in programma una settimana più tardi. Sorvolate alcune abitazioni, l’operatore di “Talon Anvil” responsabile dell’azione aveva avvisato gli analisti dell’intelligence collegati alla sala di comando che tutti i civili avevano abbandonato l’area e, dunque, chiunque rimaneva era un nemico in armi. Mentre gli abitanti della città erano ancora addormentati e senza verificare le incerte informazioni raccolte sul campo partì l’ordine di sganciare su un edificio una bomba da 500 libbre.

Una volta dissolto il fumo dell’esplosione, i militari americani assistettero a una scena raccapricciante, con donne e bambini che si precipitavano fuori dalle loro abitazioni, alcuni con arti dilaniati e altri che trascinavano i famigliari morti. Un bilancio provvisorio parlava di 23 civili uccisi e decine di feriti. La gravità dei fatti aveva spinto un ufficiale dell’aviazione americana, tra le fonti dell’articolo del Times, a fare rapporto ai suoi superiori, ma anche in questo caso non vennero presi provvedimenti né ordinate indagini. Una delle ragioni di ciò è da collegare a un’altra pratica criminale di “Talon Anvil”. Poco prima dei bombardamenti ordinati, le telecamere dei droni, che dovevano documentare le operazioni nella loro interezza, venivano spente o spostate su altre inquadrature, in modo da impedire la raccolta di immagini da utilizzare in una potenziale indagine sui crimini commessi.

Nell’esclusiva del giornale americano viene sottolineato come i crimini commessi da “Talon Anvil” siano in buona parte da ricondurre alla scelta di delegare l’autorizzazione dei bombardamenti a operatori di grado inferiore, in alcuni casi sergenti, senza la supervisione di ufficiali di alto livello. Questa interpretazione è tuttavia fuorviante e serve a minimizzare l’impatto delle rivelazioni sui particolari della guerra all’ISIS. Infatti, come conferma lo stesso Times, quando le segnalazioni delle stragi finirono sulle scrivanie dei comandi militari, nessuna misura punitiva venne mai presa contro i responsabili delle decisioni. Gli insabbiamenti che seguirono in maniera puntuale sono perciò la riprova del fatto che gli operatori che conducevano in questo modo la guerra in Iraq e in Siria, nominalmente contro i fondamentalisti, godevano della piena fiducia dei loro superiori.

Va anche ricordato che l’affidamento delle incombenze di guerra alle “forze speciali” fu ed è tuttora uno dei punti cardine della strategia bellica americana, che le amministrazioni Obama e Trump propagandarono come il sistema più sicuro per garantire precisione nel colpire il nemico e ridurre al minimo i “danni collaterali”, ovvero i massacri di civili. Le tardive rivelazioni del New York Times smentiscono invece questa versione dei fatti e confermano al contrario come la guerra contro l’ISIS non fu affatto chirurgica, bensì un’autentica strage di civili e un’orgia di distruzione gratuita di abitazioni e infrastrutture mai utilizzate a scopi militari.

Inoltre e più in generale, la libertà e l’impunità con cui le forze speciali USA hanno operato come criminali di guerra è la diretta conseguenza della natura anch’essa criminale degli obiettivi strategici di Washington, tanto più clamorosa nel caso della Siria se si considera che il conflitto in questo paese, da cui è scaturita la “minaccia” dell’ISIS, era stato alimentato per rimuovere un regime accusato di avere commesso ogni genere di atrocità contro il proprio popolo.

I responsabili delle stragi documentate dal New York Times non sono dunque solo gli psicopatici assassini delle forze speciali, ma anche i più alti comandanti militari e gli stessi leader politici che siedono al Pentagono, al dipartimento di Stato e alla Casa Bianca. Mentre gli Stati Uniti continuano a impiegare metodi criminali di gran lunga più gravi di quelli a cui ricorre la peggiore dittatura del pianeta, la stampa ufficiale viene in loro soccorso per ridimensionare i fatti che diventano di dominio pubblico, creando nell’opinione pubblica l’impressione che, in questi casi, si tratti di eccezioni o “mele marce” che non intaccano la natura benevola della prima potenza del pianeta.

Per avere un’idea della disparità di trattamento, è sufficiente considerare la campagna che viene condotta contro la Cina per il presunto genocidio che starebbe perpetrando contro la minoranza musulmana nella regione dello Xinjiang. Sulla base di insinuazioni, accuse non provate e racconti di esuli al soldo della CIA, Washington e i suoi alleati fanno pressioni enormi e impongono misure punitive contro Pechino, mentre sulla stampa si moltiplicano le rivelazioni delle stragi americane proprio ai danni di civili di fede musulmana.

L’ultima rivelazione del New York Times su “Talon Anvil” e “Task Force 9”, che segue quella di novembre che aveva documentato sempre in Siria un’altra strage di 80 civili, non farà evidentemente nulla per cambiare il comportamento della macchina da guerra USA, né per portare sul banco degli imputati i responsabili dei massacri. Infatti, letteralmente poche ore dopo la pubblicazione dell’articolo sui fatti descritti, il Pentagono ha fatto sapere che non intende adottare nessun provvedimento disciplinare contro i militari che avevano deciso il bombardamento di un edifico civile a Kabul il 29 agosto scorso.

Con modalità identiche a quelle usate in Iraq e in Siria tra il 2014 e il 2019, era stata in quell’occasione autorizzata un’operazione costata la vita a dieci civili, tra cui alcuni bambini. La strage era stata anch’essa indagata dal New York Times, che aveva dimostrato l’inconsistenza della prima versione ufficiale, secondo la quale il blitz aveva eliminato uno degli autori dell’attentato di qualche giorno prima all’aeroporto della capitale afghana.

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