Alla morte per complicazioni da COVID-19 dell’ex segretario di Stato americano, Colin Powell, è seguita sui media ufficiali e tra la classe politica di Washington una prevedibile ondata di cordoglio infarcito di elogi indiscutibilmente fuori luogo per una delle personalità più compromesse con i crimini dell’imperialismo USA degli ultimi decenni. Dalla guerra del Vietnam all’Iraq, l’ex generale ha infatti collaborato attivamente all’esecuzione e alla pianificazione di sanguinosi massacri e alla distruzione di interi paesi.

Il suo contributo al sistema di potere di cui ha fatto parte è stato però inestimabile, soprattutto per via del presunto esempio che avrebbe offerto alla comunità afro-americana e, ancora di più, per avere puntualmente proposto una finta immagine di moderazione e di dedizione ai principi democratici nonostante l’impegno instancabile nel perseguire gli interessi predatori del capitalismo a stelle e strisce.

 

Come quasi sempre accade in casi simili, sono le reazioni dei leader politici del momento a spiegare il ruolo ricoperto dal defunto più ancora di un’analisi della sua carriera pubblica. Un episodio in particolare rimarrà tuttavia impresso nell’immaginario di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo ed è legato al famigerato discorso al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel 2003 per vendere all’opinione pubblica internazionale la guerra criminale che stava per essere scatenata dall’amministrazione Bush contro l’Iraq.

Powell era stato nominato a segretario di Stato nel dicembre del 2000 dal presidente repubblicano, fresco del furto elettorale ai danni di Al Gore e dei democratici. All’ONU, il capo della diplomazia USA agitò lo spettro delle inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam Hussein e la tesi, altrettanto infondata, della collaborazione tra al-Qaeda e il regime di Baghdad, perciò in qualche modo responsabile degli attacchi dell’11 settembre. Sulla falsità delle accuse all’Iraq è quasi superfluo ritornare, né ebbero senso le giustificazioni, addotte in seguito dallo stesso Powell, della natura fuorviante delle informazioni di intelligence in mano all’amministrazione Bush. L’aggressione era stata pianificata da tempo e le accuse contro Saddam fabbricate ad arte per giustificare l’invasione e l’occupazione.

La scelta di spedire Colin Powell alle Nazioni Unite fu dovuta appunto alla sua immagine di “colomba”, indubbiamente più utile agli obiettivi già fissati dalla Casa Bianca rispetto alle figure ultra-screditate di personaggi come Cheney o Rumsfeld. Powell fu nondimeno uno dei principali responsabili di un’aggressione che, secondo stime conservative, avrebbe provocato centinaia di migliaia di morti tra gli iracheni e semplicemente distrutto una società tra le più avanzate in Medio Oriente.

L’incontro dell’Iraq con Colin Powell era peraltro già stato drammatico più di un decennio prima, in occasione della prima Guerra del Golfo, quando ricopriva la carica di capo di Stato Maggiore. In questa posizione era stato nominato da Bush padre nel 1989, con una decisione apparentemente inaspettata vista la giovane età di Powell e la lunga lista di generali con maggiore anzianità che avrebbero dovuto in teoria precederlo nella considerazione della Casa Bianca.

L’attenzione del presidente per Powell era da collegare, almeno in parte, al suo ruolo nella vicenda che sarebbe passata alla storia come “scandalo Iran-Contra”. Come membro dello staff dell’allora segretario alla Difesa, Caspar Weinberger, Powell aveva discusso della vendita segreta di armi all’Iran con l’imputato numero uno nel caso, il vice consigliere per la Sicurezza Nazionale colonnello Oliver North, del quale avrebbe preso il posto dopo l’esplosione dello scandalo. In seguito, con le dimissioni forzate del suo immediato superiore, ammiraglio John Poindexter, sempre per le ripercussioni della stessa vicenda, Powell sarebbe alla fine diventato l’ultimo consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente Reagan.

La sua partecipazione alle avventure belliche americane, come già anticipato, risale ad ogni modo al Vietnam, dove prestò servizio in due occasioni. La prima volta nel 1963 come “consigliere” per un battaglione sudvietnamita e poi nel 1968 in qualità di ufficiale in una divisione di fanteria americana e con l’incarico di fare luce sul massacro di My Lai. Al Pentagono sarebbe entrato poco dopo durante la presidenza Nixon, stringendo legami con personalità di spicco dell’amministrazione, come lo stesso Weinberger, che lo avrebbero in seguito promosso a incarichi di prestigio col ritorno dei repubblicani alla presidenza grazie a Ronald Reagan.

Fu tuttavia con Bush jr. che Powell raggiunse il culmine della sua carriera politica e, allo stesso tempo, che imboccò la sua parabola discendente. Il suo lavoro in questa amministrazione continua a essere identificato con la propensione alla diplomazia e alla moderazione in un ambiente dominato dai “falchi”. Una simile caratterizzazione appare quanto meno ironica ed estremamente rivelatrice, vista l’immagine di soldato senza scrupoli e di promotore della violenza pura e semplice in combattimento durante la prima Guerra del Golfo.

Nel gennaio del 2005 l’utilità di Powell per l’amministrazione Bush risultò esaurita e l’ex generale lasciò il dipartimento di Stato a Condoleezza Rice, fino ad allora consigliera per la Sicurezza Nazionale. Gli anni successivi avrebbero segnato un’ulteriore spostamento a destra del baricentro politico americano e soprattutto del Partito Repubblicano. Powell avrebbe finito così con l’appoggiare Obama nelle presidenziali del 2008 e Biden lo scorso anno, intervenendo addirittura alla “convention” democratica nell’estate del 2020.

L’avvicinamento ai democratici o, più correttamente, il sovrapporsi delle posizioni del Partito Democratico a quelle dei repubblicani “moderati”, ha contribuito a spiegare la popolarità postuma di Powell tra i membri dell’attuale amministrazione e della maggioranza al Congresso. Ciò è evidente dalle lodi espresse soprattutto per quelli che sarebbero i suoi meriti nell’incarnare un modello di successo per la comunità afro-americana, anche se in realtà sotto forma di criminale di guerra. Una delle espressioni più degradanti in questo senso è arrivata dal deputato democratico Jamaal Bowman, membro dei cosiddetti “Socialisti Democratici d’America” (DSA), secondo il quale Powell sarebbe stato di “ispirazione” per la sua carriera.

La fissazione sulle questioni razziali e di genere del Partito Democratico, soprattutto per l’ala “sinistra” del partito, spiegano in parte il fervore delle lodi rivolte al defunto ex generale. Ma c’è a ben vedere molto di più di questo. La giornalista del network liberal MSNBC, Joy Reid, ha ridotto le responsabilità di Colin Powell a meri “momenti difficili in relazione alle nostre guerre”, per poi descriverlo come, “fondamentalmente, una persona onesta e rispettabile”, nonché, in definitiva, “un grande americano di cui possiamo tutti essere orgogliosi”.

Lo stesso presidente Biden ha garantito tutti gli onori a Powell, ordinando le bandiere a mezz’asta fino alla fine della settimana e rilasciando una dichiarazione nella quale si parla di “un patriota dalla dignità e dall’onore ineguagliabili”, capace di raggiungere “i gradi più alti delle forze armate americane” e di fungere da consigliere per quattro presidenti. Anche Biden ha ricordato poi lo sfondamento delle “barriere razziali” da parte di Powell e il suo “impegno personale per i valori democratici che rendono forte il nostro paese”.

Lo spreco di questa retorica per un ex militare e uomo politico con responsabilità come quelle di cui si è macchiato in oltre mezzo secolo Colin Powell rivela per lo più la gratitudine e la solidarietà nei confronti di un membro di una classe dirigente che presiede sostanzialmente agli stessi crimini e che cerca di occultarli, come ha cercato di fare in tutta la sua carriera l’ex generale, dietro a una patina di decenza e di attaccamento formale ai valori democratici.

Un altro motivo dell’ammirazione per Powell è rappresentato infine anche dal fatto che è stato proprio lui a inaugurare il passaggio di alti ufficiali delle forze armate al governo civile o, più in generale, la trasformazione di ex militari in “guardiani” della democrazia americana. Questo fenomeno si è accentuato enormemente negli ultimi anni ed è anzi favorito da una classe politica alla deriva e che vede proprio nei militari non tanto una garanzia democratica quanto una linea di difesa, dai connotati autoritari, contro possibili scosse derivanti dalle crescenti ed esplosive tensioni sociali che attraversano gli Stati Uniti.

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