Dopo quasi due decenni di abusi, torture e detenzione in stato di isolamento, l’ex sospettato di terrorismo Abu Zubaydah continua a essere rinchiuso arbitrariamente dal governo americano nel lager di Guantanamo. Il suo caso è oggetto di un procedimento legale transnazionale, in questi giorni all’attenzione della Corte Suprema degli Stati Uniti, che sta sollevando questioni spinosissime e imbarazzanti per Washington, a cominciare dall’assunzione di responsabilità per i metodi brutali e totalmente illegali con cui nella prima fase della “guerra al terrore” erano stati trattati i detenuti sospettati di appartenere ad al-Qaeda.

 

La causa in corso fa riferimento a una denuncia presentata dai legali di Zubaydah in Polonia contro i funzionari del governo e dei servizi di sicurezza di Varsavia, responsabili di avere collaborato con la CIA nella “tortura e detenzione illegale” che ha dovuto subire in una località “segreta” del paese dell’Europa orientale dopo il suo arresto in Pakistan nel 2002. L’ormai 50enne di origine palestinese ha chiesto al governo americano informazioni sul luogo in cui era stato per qualche tempo rinchiuso in territorio polacco, nonché la testimonianza di due ex “contractor” della CIA, gli psicologi James Mitchell e John Bruce Jessen.

Questi ultimi, tuttora a piede libero, avevano stilato un elenco di metodi di tortura – o “interrogatori potenziati” – appositamente per Zubaydah, di fatto il primo prigioniero sottoposto a questo trattamento dopo l’11 settembre. Gli USA hanno respinto e continuano a respingere qualsiasi richiesta di informazioni sulla vicenda, appellandosi come di consueto al cosiddetto “privilegio del segreto di stato”, una dottrina senza fondamento costituzionale che prevede il silenzio del governo quando in ballo ci sono questioni presumibilmente legate alla “sicurezza nazionale”.

In questa circostanza, l’invocazione del segreto di stato e degli imperativi della sicurezza nazionale appare particolarmente insensata. Le informazioni sul caso di Abu Zubaydah sono in buona parte e da tempo di dominio pubblico, essendo state oggetto anche di sentenze e di indagini ufficiali. La Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, a cui si erano rivolti i legali del detenuto nell’ambito della causa polacca, nel 2014 aveva ad esempio stabilito che nei suoi confronti erano stati usati metodi di tortura e ciò era avvenuto nei cosiddetti “black site” della CIA, tra cui uno appunto in Polonia.

Questi stessi dettagli erano stati ampiamente riportati dalla stampa ufficiale negli anni scorsi e addirittura ne aveva parlato il rapporto del Senato USA sulle torture della CIA, pubblicato in forma ridotta nel 2014. Il rapporto rivelava anche che la CIA aveva alla fine concluso che Zubaydah non era un membro di al-Qaeda.

Il vero nome del prigioniero di Guantanamo è Zayn al-Abidin Muhammad Husayn e il suo arresto in Pakistan nel 2002 era stato celebrato dalla CIA come un successo perché sospettato di essere un collaboratore di primissimo piano del leader e fondatore di al-Qaeda, Osama bin Laden. Prima di essere trasferito a Guantanamo, Zubaydah è rimasto sotto custodia della CIA per quattro anni, passando attraverso varie località segrete.

Durante la detenzione vennero impiegati svariati metodi di tortura. A un certo punto, nel corso di un solo mese fu sottoposto per 83 volte a “waterboarding”, mentre in un’altra occasione venne obbligato a restare immobilizzato per 11 giorni consecutivi in una cassa delle dimensioni di una bara. Queste e altre torture hanno lasciato segni indelebili sul corpo e la mente di Abu Zubaydah, il quale ha tra l’altro perso un occhio e soffrirebbe di pesanti problemi psichici, aggravati dallo stato di isolamento in cui è rinchiuso a Guantanamo.

Nella giornata di mercoledì, un’udienza della Corte Suprema americana è stata dunque dedicata al caso Zubaydah. A parte un breve intervento del giudice “liberal” Stephen Breyer, che ha chiesto al procuratore del governo la ragione per cui Zubaydah rimanga a Guantanamo dopo 15 anni e senza essere mai stato formalmente accusato di nessun crimine, il dibattimento ha in larga misura sorvolato sulla sua situazione. In discussione c’era invece l’eventualità che i due psicologi che collaborarono con la CIA nelle torture testimoniassero nel processo in corso, con i rappresentanti dell’amministrazione Biden decisi ad affermare la tesi del segreto di stato e la maggioranza dei giudici sostanzialmente favorevole a questa interpretazione.

Alcuni membri della Corte hanno ipotizzato che lo stesso Zubaydah possa testimoniare sul trattamento ricevuto dalla CIA, in modo da aggirare l’ostacolo rappresentato dagli scrupoli del governo circa le questioni di “sicurezza nazionale”. I legali del detenuto hanno tuttavia spiegato che la sua testimonianza non sarebbe consentita dalle condizioni di detenzione che gli vengono imposte. Il procuratore del dipartimento di Giustizia non ha invece saputo esprimere un’opinione sulla proposta dei giudici e ha rimandato la risposta del governo, presumibilmente in seguito a consultazioni con i propri superiori.

L’aspetto più eclatante dell’udienza di questa settimana alla Corte Suprema è rappresentato dalla continuità della condotta dell’amministrazione Biden rispetto alla questione delle torture nel quadro della “guerra al terrore”. Se Bush jr. è responsabile direttamente dell’implementazione di questi metodi contro i sospettati di terrorismo, tutti i suoi successori si sono impegnati allo stremo per evitare che i responsabili degli orrori commessi dopo l’11 settembre fossero chiamati a rendere conto dei loro atti davanti alla giustizia. Trump, addirittura, arrivò a nominare direttore della CIA Gina Haspel, implicata nelle torture praticate nei “black site” dell’agenzia e responsabile della distruzione delle registrazioni di questi “interrogatori potenziati”.

L’attuale presidente democratico, da parte sua, intende continuare a opporre alle richieste di giustizia una dottrina pseudo-legale che i governi di Washington da decenni utilizzano arbitrariamente per mantenere il segreto su crimini e questioni scomode che minacciano di screditare o destabilizzare il sistema di potere americano.

L’impegno in questo senso della Casa Bianca è particolarmente sentito nel caso Zubaydah, perché quest’ultimo potrebbe fissare un precedente nella gestione dei risvolti legali della “guerra al terrore”. Una fonte coinvolta nel procedimento ha spiegato alla testata on-line Middle East Eye che la vicenda Zubaydah, assieme a un altro caso che la Corte Suprema affronterà a breve (“FBI contro Fazaga”), potrebbe risultare decisiva per stabilire “la facoltà del governo di nascondere al pubblico qualsiasi informazione relativa a violazioni dei diritti di cui si è macchiato”.

“Se la Corte Suprema”, scrive il sito, “dovesse decidere che il governo può mettere fine al procedimento legale con una dichiarazione unilaterale di segretezza”, ci si ritroverebbe in una “situazione molto pericolosa per il diritto”, col rischio che venga meno l’obbligo del governo di garantire un meccanismo legale per ricorsi e risarcimenti derivanti da “gravi violazioni dei diritti umani”. La sentenza della Corte Suprema sul caso Zubaydah è prevista entro la fine del prossimo mese di giugno.

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