La battaglia in corso negli Stati Uniti sulla riforma elettorale ha spinto questa settimana il presidente Biden ad affrontare per la prima volta in un discorso pubblico lo stato precario della “democrazia” americana. La delicatissima questione si sta giocando in primo luogo a livello dei singoli stati, a cui competono le questioni elettorali secondo la Costituzione USA, ma si intreccia anche alle dinamiche politiche di Washington, con un Partito Democratico profondamente diviso sulle iniziative da adottare contro il moltiplicarsi dei tentativi dei repubblicani di restringere drasticamente il diritto di voto.

 

Due eventi in questi giorni hanno surriscaldato il dibattito attorno all’argomento elezioni. Il primo è la fuga dal loro stato di decine di deputati democratici della camera bassa dell’assemblea statale del Texas, nel tentativo di far mancare il quorum in aula e, quanto meno, rimandare l’approvazione di una riforma elettorale ultra-reazionaria proposta dalla maggioranza repubblicana. Il secondo è invece il già ricordato intervento di Joe Biden, dedicato in larga misura proprio alla legislazione elettorale.

Le due nuove leggi in discussione nel Texas fanno parte di una serie di iniziative, prese dopo le presidenziali dello scorso anno, da numerosi stati governati dal Partito Repubblicano. Sotto la spinta delle accuse senza fondamento di brogli e irregolarità, lanciate dall’ex presidente Trump, molte legislature locali hanno introdotto misure volte a scoraggiare e ostacolare il voto, con l’obiettivo di penalizzare gli elettori appartenenti alle classi più disagiate o a una minoranza etnica, solitamente più inclini a votare per i democratici.

I repubblicani sostengono formalmente di volere combattere le frodi elettorali, ad esempio rafforzando le regole per l’identificazione dei votanti o limitando le forme di voto alternative ai seggi, ma di brogli documentati non vi è quasi mai traccia nelle elezioni americane a qualsiasi livello. La realtà è che quello in atto è un autentico assalto al diritto di voto, in modo da ridurre ancora di più i livelli di affluenza, già bassissimi negli Stati Uniti, e favorire il Partito Repubblicano.

Vista la maggioranza repubblicana in entrambi i rami del parlamento statale texano, circa 60 deputati democratici hanno deciso di ricorrere all’unico metodo a disposizione per ostacolare l’iter legislativo e si sono così imbarcati su voli privati con destinazione Washington. La Camera del Texas si è ritrovata allora senza il numero legale necessario per discutere e votare le leggi elettorali. Questo gesto non è nuovo negli Stati Uniti, ma, come accaduto anche nel recente passato in altri stati, è quasi esclusivamente simbolico e serve tutt’al più a rimandare la ratifica di una determinata legge.

La Costituzione del Texas prevede che nel parlamento statale siano presenti i due terzi dei membri affinché i lavori possano procedere regolarmente. Coloro che non si presentano in aula, tuttavia, possono essere soggetti a provvedimenti legali per fare in modo che partecipino alle votazioni. Infatti, il governatore repubblicano ultra-conservatore, Greg Abbott, ha minacciato la detenzione dei deputati democratici fuggitivi, mentre la camera statale ha approvato martedì una risoluzione che chiede alle forze di polizia di individuarli e, “se necessario”, di procedere con il loro arresto.

L’atteggiamento dei leader repubblicani nel Texas la dice lunga sullo stato di degrado della pratica “democratica” negli Stati Uniti, peraltro perfettamente in linea con le leggi elettorali che il parlamento di questo stato sta cercando di implementare. A Washington, i deputati democratici che hanno lasciato il Texas stanno cercando di fare pressioni sul Congresso federale per mandare in porto altre due proposte di legge introdotte dal loro partito (“For The People Act” e “John Lewis Voting Rights Act”) e che puntano a neutralizzare i provvedimenti restrittivi in materia elettorale proliferati a livello statale negli ultimi mesi.

Il problema è rappresentato però dai numeri. I democratici non hanno cioè i voti sufficienti al Senato per approvare le due riforme elettorali. Trattandosi di una questione che esula dalle questioni di bilancio, le regole del Senato richiedono una maggioranza di 60 voti sui 100 totali. I democratici ne controllando appena 50 e, quindi, l’unica soluzione sarebbe l’eliminazione della norma procedurale (“filibuster”) che impone il raggiungimento di una “supermaggioranza”. Su questo punto i democratici sono però divisi, con quelli più “moderati” decisamente contrari a liquidare una regola che ritengono possa ritorcersi contro il proprio partito quando gli equilibri al Senato saranno invertiti.

L’impegno per una riforma elettorale che faciliti l’esercizio del diritto di voto è diventato in ogni caso una priorità per molti a Washington, anche perché se le leggi repubblicane adottate o in fase di adozione a livello statale dovessero diventare la norma, per il Partito Democratico potrebbero esserci serie difficoltà nei prossimi appuntamenti con le urne.

Per questa ragione, sono sempre maggiori le pressioni sulla Casa Bianca per prendere una posizione netta sulla questione. Biden ha infatti dedicato il proprio intervento di martedì a Philadelphia alla minaccia che incombe sul diritto di voto negli USA. Le iniziative che propone per contrastare questa deriva sono però modestissime. In sostanza, Biden si è limitato a fare appello al senso democratico del Partito Repubblicano, del quale si è avuto recentemente un esempio durante l’annuale conferenza politica conservatrice (CPAC). A questo evento ha partecipato l’ex presidente Trump, sempre più il vero punto di riferimento dei repubblicani, e nel suo discorso ha riproposto tutte le tesi della “elezione rubata”, evidenziando inoltre clamorose affinità addirittura con la retorica hitleriana.

Biden, da parte sua, non ha preso posizione sull’argomento decisivo dell’intera vicenda, vale a dire il suo eventuale appoggio all’eliminazione del “filibuster”. Senza un’azione in questo senso, perciò, le possibilità di vedere approvate le due leggi promosse dai democratici per difendere il diritto di voto risultano quasi nulle. L’arrendevolezza di Biden dimostra in definitiva come la priorità non sia tanto il più basilare dei diritti democratici, quanto la salvaguardia degli equilibri all’interno della classe dirigente americana, basati sulla sostanziale collaborazione tra i due partiti maggiori attorno alle questioni fondamentali per il sistema, dalla “sicurezza nazionale” al budget colossale del Pentagono, dalla politica estera alla sorveglianza della popolazione.

Il comportamento mostrato in questo modo da Biden nella sua più recente uscita pubblica contrasta infine con l’analisi, decisamente più penetrante, che ha offerto dello stato della democrazia americana. Biden ha per la prima volta parlato dell’attacco al Congresso del 6 gennaio scorso, condotto da sostenitori di Trump di estrema destra. Il collegamento tra questi fatti e le leggi elettorali repubblicane in fase di approvazione è stato puntuale, così come l’avvertimento di possibili futuri tentativi di sovvertire l’ordine costituzionale.

Biden ha insomma riconosciuto in questa fase storica l’esistenza della minaccia più grave alla “democrazia” americana “dai tempi della Guerra Civile”. Per affrontare questo pericolo, tuttavia, il presidente ha offerto solo iniziative trascurabili, come lo stanziamento di una somma irrisoria per favorire la registrazione di nuovi elettori e la promessa di intentare cause legali contro le leggi repubblicane.

La sensazione complessiva che si ricava è dunque che la Casa Bianca e, probabilmente, i leader democratici al Congresso abbiano già tacitamente accettato la sconfitta in materia di riforma elettorale. La ragione di ciò non è tanto la mancanza dei numeri necessari al Senato o l’influenza dei democratici “moderati”, quanto l’organicità di questo partito a un sistema di potere che ha abbandonato da tempo qualsiasi impegno concreto per la difesa dei principi democratici.

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