Quello che è nato domenica in Israele è probabilmente il governo sulla carta più debole dell’intera storia dello stato ebraico. Oltre a poter contare su una maggioranza minima, sul fronte interno saranno numerose le questioni spinose con cui l’esecutivo si troverà a dover fare i conti nell’immediato, mentre su quello regionale e internazionale il fattore più delicato da considerare sarà il rapporto che il neo-premier, Naftali Bennett, e il ministro degli Esteri, Yair Lapid, saranno in grado di stabilire con il presidente americano Biden.

 

Il ruolo degli Stati Uniti in quella che, almeno per il momento, appare come la conclusione dell’era Netanyahu, è rimasto quasi sempre fuori dal dibattito pubblico sulla crisi politica israeliana. Tuttavia, il passaggio di consegne alla Casa Bianca tra Trump e Biden ha probabilmente influito sulle vicende di Tel Aviv e, soprattutto, l’uscita di scena di Netanyahu potrebbe forse favorire il raggiungimento di alcuni degli obiettivi in Medio Oriente dell’amministrazione democratica.

A livello sostanziale, il “governo del cambiamento”, come è stato definito dai leader che lo hanno fatto nascere, non si discosterà di molto dalle posizioni ultra-nazionaliste e anti-arabe di quelli precedenti presieduti da Netanyahu. Malgrado il sostegno esterno della manciata di deputati del partito arabo conservatore Ra’am o di quello di sinistra Meretz, le principali personalità che fanno parte del gabinetto o della nuova maggioranza hanno avuto legami con il deposto premier o di quest’ultimo ne condividono le inclinazioni.

Per cominciare, Bennett è ritenuto universalmente su posizioni anche più a destra di Netanyahu, avendo da sempre sostenuto in modo feroce le politiche di annessione e avversato l’idea di uno stato palestinese. Bennett, oltre ad avere un passato da membro delle forze speciali israeliane, è stato ministro della Difesa in un governo Netanyahu, per il quale ha svolto anche l’incarico di capo di gabinetto. Allo stesso modo, il numero uno del partito Yisrael Beiteinu, Avigdor Lieberman, è stato ministro delle Finanze e degli Esteri con Netanyahu, Gideon Sa’ar del partito “Nuova Speranza” è un recente ex membro del Likud, mentre anche il centrista Lapid ha fatto parte di un governo con “Bibi” in qualità di ministro delle Finanze.

Benny Gantz del partito “Blu e Bianco”, infine, era entrato lo scorso anno nel governo di “unità nazionale” appena caduto, ottenendo da Netanyahu le cariche di ministro della Difesa e di vice-premier. Prima di entrare in politica, Gantz era stato al comando delle forze armate israeliane, guidando tra l’altro la sanguinosa aggressione contro la striscia di Gaza del 2014. Da ministro delle Difesa, appunto, qualche settimana fa ha inoltre presieduto alle più recenti operazioni contro la popolazione palestinese.

Questi precedenti non influiranno comunque per nulla sull’approccio di Biden al nuovo governo di Tel Aviv, anche se il presidente democratico intende formalmente ristabilire i rapporti con l’Autorità Palestinese e tornare ad aderire al principio dei “due stati”. Ciò che conta per Washington è che il cambio alla guida dell’esecutivo israeliano corrisponda alla fine della linea dura di Netanyahu. In termini concreti, da Israele dovrebbero cessare le pressioni e i veti non solo sulla questione palestinese, ma anche sull’Iran e sulle altre principali questioni mediorientali.

Bennett, nel suo discorso al parlamento (“Knesset”) in occasione del voto di fiducia di domenica, ha confermato in realtà la sua opposizione al ristabilimento dei termini dell’accordo sul nucleare di Teheran (JCPOA), in fase di negoziazione a Vienna. La promessa di continuare con l’atteggiamento intransigente di Netanyahu è apparso però a molti osservatori come il tentativo di sventare gli attacchi da destra e, in particolare, le accuse di debolezza, già rivoltegli da Netanyahu e dal Likud, sulle questioni della sicurezza nazionale.

Il portafoglio degli Esteri sarà poi a tutti gli effetti sotto il controllo del titolare di questo dicastero, il relativamente moderato Lapid, al contrario di quanto accaduto negli ultimi governi di Netanyahu, quando era il premier ad accentrare le decisioni di politica estera. Non c’è dubbio insomma che Washington abbia accolto con sollievo la nascita del nuovo governo israeliano anche in relazione alla vicenda iraniana. Per avere un’idea del mutato quadro delle relazioni USA-Israele basti ricordare, tra l’altro, come Netanyahu aveva denunciato l’accordo originario del 2015 sul nucleare di Teheran, sottoscritto da Obama, in un discorso al Congresso di Washington, tenuto su invito dei leader repubblicani.

I vantaggi per Biden e i democratici potrebbero riflettersi sul piano politico interno, visto appunto che Netanyahu aveva sempre sfruttato i propri legami con il Partito Repubblicano e le lobby sioniste negli USA per esercitare pressioni sulla Casa Bianca in caso di necessità. Lo stesso neo-ministro degli Esteri Lapid ha fatto riferimento a queste dinamiche in una dichiarazione rilasciata lunedì. Il leader del principale partito della coalizione di governo ha criticato la gestione dei rapporti con il Partito Democratico americano da parte di Netanyahu e annunciato un cambio di rotta, al fine di “rafforzare le relazioni” tra i due alleati.

Le parole di Yair Lapid fanno luce, a un livello più generale, sulle ragioni di fondo che hanno finito per decretare la fine dell’era Netanyahu. Come anticipato all’inizio, la sconfitta di Trump ha probabilmente innescato un processo politico in Israele che ha portato al consolidarsi di forze disparate per liquidare il premier in carica dal 2009. Il permanere di Netanyahu alla guida del governo di Tel Aviv avrebbe infatti prodotto una serie di problematiche non solo sul fronte interno, dovute ai guai legali in cui è coinvolto, ma anche sul piano internazionale e dell’alleanza con Washington, viste le differenze tattiche subito emerse con il nuovo presidente americano. Non è un caso d’altra parte che Biden abbia atteso ben due mesi dopo il suo insediamento per alzare il telefono e parlare con Netanyahu, mentre domenica solo due ore dopo il voto di fiducia alla “Knesset” si è complimentato personalmente con il neo-premier Naftali Bennett.

Alla luce della composizione del nuovo governo di Israele, in ogni caso, l’auspicio della Casa Bianca è tutt’al più che i temi più controversi – dall’Iran alla Palestina – vengano messi in secondo piano rispetto alle questioni domestiche da risolvere, a cominciare dall’approvazione di un bilancio che manca ormai da due anni. Se è vero che i delicatissimi equilibri interni alla nuova maggioranza potrebbero far sparire per il momento la minaccia di azioni clamorose, più volte ipotizzate da Netanyahu, come l’annessione di buona parte della Cisgiordania, dall’altro lato sono improbabili anche iniziative per resuscitare il negoziato di pace con i palestinesi. È probabile in ogni caso che su queste vicende anche il nuovo governo Bennett avrà in buona parte mano libera da Washington, soprattutto riguardo agli insediamenti, andando al massimo incontro alle innocue condanne di rito del dipartimento di Stato.

Resta il fatto che gli eventi delle ultime settimane hanno visto il riesplodere della violenza tra ebrei e palestinesi anche dentro i confini di Israele, prima e durante il nuovo round di bombardamenti contro Gaza. Questa realtà, come ha spiegato al New York Times l’analista americano-palestinese Yousef Munayyer, potrebbe complicare il tentativo dei governi di Washington e Tel Aviv di riportare le lancette dell’orologio al periodo in cui “la questione palestinese non era al centro dell’attenzione mondiale”. Il problema, per Biden e per il governo Bennett-Lapid, è dunque che “le condizioni sul campo non si prestino necessariamente alla farsa” del finto processo di pace e della soluzione dei “due stati”, attraverso i quali gli Stati Uniti e l’Occidente hanno tenuto a lungo sotto controllo la polveriera palestinese.

Il primo banco di prova del nuovo gabinetto, intanto, è stata la manifestazione ultra-provocatoria delle “bandiere”, fissata per martedì. La marcia annuale dei nazionalisti ebrei attraverso quartieri arabi di Gerusalemme era stata modificata un mese fa in concomitanza con gli scontri nella spianata delle Moschee e con la successiva esplosione della guerra a Gaza. La marcia era stata appoggiata da Netanyahu al preciso scopo di alimentare scontri e tensioni per i propri fini politici. Il nuovo ministro per la Sicurezza Interna lunedì ha a sua volta autorizzato la dimostrazione, nonostante i rischi di una nuova esplosione delle violenze e di possibili ritorsioni da parte di Hamas. La decisione, oggettivamente irresponsabile, è stata con ogni probabilità presa per evitare gli attacchi politici da destra e conferma fin da subito le dinamiche e i ricatti a cui sarà esposto il neonato governo di Naftali Bennett.

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