Le violenze delle forze di sicurezza di Israele contro i palestinesi e le proteste di questi ultimi, che stanno caratterizzando il mese del Ramadan, hanno fatto segnare un’impennata nel fine settimana in concomitanza con l’aggravarsi delle tensioni provocate dal tentativo di cacciare dalle proprie abitazioni decine di famiglie palestinesi in un quartiere di Gerusalemme Est. La vicenda ha mostrato ancora una volta come lo stato ebraico metta in atto regolarmente politiche di apartheid, in questo caso implementando un disegno ben preciso per espellere la popolazione palestinese dai territori occupati. Un’ulteriore preoccupante escalation c’è stata lunedì con un pesante bombardamento israeliano in risposta al lancio di alcuni missili da Gaza.

 

Dalla metà di aprile sono in corso scontri causati dalle restrizioni imposte dalla polizia israeliana all’accesso serale dei palestinesi ai luoghi di preghiera della città vecchia. Il culmine delle violenze si era avuto nella nottata di venerdì scorso con l’irruzione delle forze di sicurezza di Israele nella moschea di al-Aqsa, giustificata ufficialmente con un precedente lancio di pietre contro gli agenti. Il bilancio è stato alla fine di oltre 200 palestinesi feriti e decine di arresti.

Il giorno precedente c’era stata anche una marcia provocatoria di gruppi israeliani di estrema destra, venuti in contatto con i palestinesi. Ulteriori scontri si sono registrati lunedì in seguito a un’altra manifestazione, autorizzata dalle autorità israeliane, per celebrare l’occupazione di Gerusalemme Est durante la guerra del 1967 e che prevede, come ogni anno una sfilata attraverso i quartieri arabi. Dopo le proteste palestinesi nella mattinata nella Spianata delle Moschee, con il nuovo intervento della polizia israeliana e più di 300 feriti, le autorità hanno deciso una variazione del percorso della marcia degli ultra-nazionalisti israeliani per evitare ulteriori scontri.

La resistenza dei palestinesi contro le discriminazioni attuate da Israele riguardo l’accesso ai luoghi religiosi di Gerusalemme si è saldata con le proteste esplose nel quartiere di Sheikh Jarrah, dove, come accennato all’inizio, numerose famiglie sono a rischio di sfratto. Nel 1956, una trentina di famiglie palestinesi espulse dalle loro terre dopo la guerra del 1948 si stabilirono in questa località allora amministrata dal regno di Giordania.Qualche anno più tardi siglarono un accordo col governo giordano, secondo il quale le famiglie palestinesi avrebbero ottenuto la proprietà delle terre e delle abitazioni loro assegnate in cambio della rinuncia allo status di rifugiati. L’accordo non venne tuttavia finalizzato a causa della guerra del 1967 che privò la Giordania del controllo su Gerusalemme Est.

Dai primi anni Settanta iniziarono le cause legali per scacciare le famiglie palestinesi, con il pretesto che le terre di Sheikh Jarrah erano appartenute a ebrei che vi risiedevano dalla fine del XIX secolo sotto l’impero Ottomano. Malgrado i tribunali israeliani non abbiano giurisdizione nei territori occupati illegalmente, gli ordini di sfratto sono stati molteplici negli ultimi due decenni e sulle famiglie palestinesi che restano a Sheikh Jarrah pendono ora ordinanze simili.

38 famiglie dovrebbero lasciare le loro abitazioni con effetto immediato, mentre altre tre entro il primo di agosto. Per altri ancora sono in corso procedimenti legali intentati dai coloni israeliani. Con le tensioni alle stelle, la Corte Suprema israeliana ha posticipato di un mese l’udienza programmata inizialmente lunedì sugli sfratti. In precedenza, con l’ordine di sfratto era stato emesso anche un invito al “compromesso” per risolvere la questione, ovvero si chiedeva alle famiglie palestinesi di trovare un “accordo” con i coloni che intendono sottrarre loro terre e abitazioni.

Il rinvio serve comunque a prendere tempo in attesa di un allentamento delle tensioni, ma non cambia di una virgola le intenzioni israeliane di cancellare la presenza palestinese a Gerusalemme Est, in teoria destinata a fungere da capitale di un futuro stato indipendente. Le colossali discriminazioni israeliane sono testimoniate anche dal fatto che ai coloni è consentito presentare istanze per rivendicare proprietà presumibilmente detenute nei territori occupati prima del 1948, mentre questo diritto è negato ai palestinesi.

Sia Israele sia la stampa ufficiale in Occidente stanno cercando di dare l’impressione che lo scontro su Sheikh Jarrah riguardi il solo ambito legale. La questione si inserisce invece nella strategia di apartheid e nelle pratiche di pulizia etnica portate avanti regolarmente da Israele, mettendo la comunità internazionale di fronte al fatto compiuto dell’occupazione totale dei territori palestinesi.

Le proteste palestinesi si stanno ad ogni modo allargando rapidamente nelle città israeliane e in Cisgiordania, con un livello di solidarietà visto raramente in passato. Questa evoluzione della resistenza palestinese è almeno in parte da collegare all’accelerazione dei piani di colonizzazione di Israele per assicurare, come ha spiegato un colono in una recente intervista al New York Times, “il futuro di Gerusalemme come capitale ebraica per il popolo ebraico”.

I fatti degli ultimi giorni sono stati al centro di molte dichiarazioni di governi occidentali e mediorientali, tutti preoccupati per una possibile escalation delle violenze e, soprattutto, per l’eventualità che le proteste palestinesi sfuggano di mano. Se gli Stati Uniti hanno sostanzialmente approvato il comportamento delle forze di sicurezza israeliane, i regimi arabi che intrattengono rapporti diplomatici con Tel Aviv hanno invece criticato Israele.

I segnali di un aggravamento della situazione e del pericolo che le ultime vicende sfocino in un conflitto più ampio sono arrivati dallo scambio di missili tra Gaza e Israele registrato tra domenica e lunedì. Secondo i militari israeliani, una cinquantina di razzi sarebbero stati lanciati dalla striscia, la maggior parte dei quali indirizzati nel sud del paese e una manciata in direzione di Gerusalemme. Solo alcuni ordigni sarebbero sfuggiti al sistema anti-missilistico israeliano, per cadere, tranne in un caso, in aree non popolate.

La reazione di Israele è stata come al solito spropositata. Per la Associated Press, nella serata di lunedì sarebbero già state venti le vittime a Gaza, tra cui nove bambini. Il premier Netanyahu ha avvertito che “chiunque ci attacchi dovrà pagare un prezzo carissimo” e che le ostilità potrebbero non terminare a breve. È del tutto possibile che il governo di Netanyahu intenda sfruttare l’occasione per rimediare ai guai politici e giudiziari dello stesso primo ministro. Oltre al processo in cui è coinvolto, sono in corso in Israele frenetici colloqui tra i partiti di opposizione per far nascere un nuovo governo che metterebbe clamorosamente da parte Netanyahu dopo oltre un decennio ininterrotto al potere.

La situazione è infine estremamente calda anche sul fronte politico palestinesi. Gli animi sono infatti già infiammati dalla recente decisione del presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), di rinviare le elezioni programmate tra la fine di maggio e la fine di luglio e che sarebbero state le prime dal 2006. L’anziano leader ha giustificato la decisione con il rifiuto di Israele a consentire ai palestinesi di Gerusalemme Est di partecipare al voto, ma dietro all’iniziativa ci sarebbe soprattutto il crollo dei consensi per il suo partito Fatah, già fazione dominante all’interno dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). In un segnale che la questione potrebbe provocare ulteriori tensioni, praticamente tutti gli oppositori di Abbas hanno denunciato il rinvio e minacciato una mobilitazione per spingerlo a tornare sui propri passi e organizzare al più presto le elezioni che avrebbero dovuto sancire la riconciliazione tra Fatah e Hamas.

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