A dieci anni dall’inizio della guerra orchestrata dalla NATO contro il regime di Gheddafi, la Libia ha visto nascere questa settimana un nuovo governo provvisorio che dovrebbe unificare il paese e condurlo alle elezioni che i recenti colloqui di pace mediati dall’ONU hanno fissato per il 24 dicembre prossimo. Gli ostacoli che l’esecutivo di “unità” si trova di fronte sono però enormi e le divisioni e i conflitti che attraversano il territorio libico da est a ovest non svaniranno dall’oggi al domani. Lo strapotere delle milizie armate, l’ingerenza dei paesi stranieri, così come povertà e corruzione, continueranno a segnare a lungo gli eventi di un paese letteralmente devastato da un intervento militare “umanitario” scatenato, nel marzo del 2011, dalla menzogna di una rivoluzione democratica sul punto di essere soffocata nel sangue.

 

La sorte drammatica della Libia offre l’esempio più lampante delle conseguenze della strategia degli Stati Uniti e dei loro alleati per rovesciare un sistema politico e sociale visto come una minaccia ai propri interessi. Nel caso specifico, le pulsioni della “Primavera Araba”, che stavano circolando tra il Medio Oriente e il Maghreb, furono sfruttate e, di fatto, travolte con una campagna di bombardamenti in appoggio a forze fondamentaliste che, in pochi mesi, avrebbero finito per distruggere e gettare nel caos il paese più avanzato del continente africano.

Il pretesto per l’intervento militare era stato costruito attorno alla notizia, mai supportata dai fatti, di un imminente attacco del regime contro la città orientale di Bengasi, dove era concentrata l’opposizione islamista al governo di Tripoli. Voci di un bagno di sangue, se non addirittura di un “genocidio”, vennero alimentate ad arte e propagandate dalla stampa occidentale in collaborazione con politici, commentatori e attivisti di “sinistra”.

Quello che seguì, fu un conflitto costato migliaia di morti e l’emergere di fazioni che, all’indomani della barbara esecuzione di Gheddafi, celebrata vergognosamente dal governo americano del premio Nobel per la Pace Barack Obama, innescarono una spirale di violenze e la discesa della Libia in un incubo dal quale ancora non si intravede una via d’uscita. Il paese con l’indice di sviluppo più alto della regione si è così ritrovato a pagare un prezzo carissimo per l’assistenza occidentale nell’abbattere quella che veniva caratterizzata come una brutale dittatura, anche se corteggiata da Londra, Parigi, Roma e Washington fino a poco tempo prima.

Il paese africano con le più ingenti riserve petrolifere si ritrovò a fare i conti con ripetuti black-out e carenza di carburante. Un sistema sanitario nettamente superiore agli standard del continente fu mandato a sua volta in rovina, mentre anche l’accesso al cibo e ad acqua pulita divenne problematico. La sicurezza pubblica garantita dal regime ha lasciato il posto alla proliferazione di bande armate e il paese è diventato il crocevia di traffici di esseri umani, con il corollario di torture, assassinii, detenzioni in condizioni raccapriccianti e, addirittura, con l’apparire di compravendite di immigrati trattati come veri e propri schiavi.

A convincere i governi occidentali a muoversi per liquidare Gheddafi furono una serie di fattori che avevano trasformato il colonnello in una minaccia alla proiezione dei loro interessi strategici ed energetici. Le iniziative del leader libico, in ambito petrolifero e non solo, erano sempre più in contrasto con le mire dell’Occidente, allarmato inoltre dalla crescente penetrazione in questo paese di Cina e Russia. L’esplosione nelle settimane precedenti al marzo 2011 delle rivoluzioni in Egitto e in Tunisia, dove la mobilitazione popolare sembrava poter minacciare l’allineamento di entrambi i regimi con USA ed Europa, fu alla fine determinante nella decisione di intervenire militarmente per assicurare a Tripoli un governo fermamente ancorato agli interessi occidentali.

Negli ultimi anni, la Libia è stata divisa tra il fragile Governo di Accordo Nazionale (GNA) riconosciuto dall’ONU e sostenuto materialmente da Turchia, Qatar, Italia e da milizie islamiste rinforzate da mercenari stranieri, che a lungo è stato in grado di controllare solo poco più del territorio della capitale, e quello rivale nell’est del paese, difeso dall’Esercito Nazionale Libico (LNA) del generale Khalifa Haftar. Quest’ultimo, appoggiato da Russia, Francia, Egitto ed Emirati Arabi, era stato più volte sul punto di travolgere le forze del GNA ed entrare a Tripoli, ma il contributo militare turco lo aveva alla fine ricacciato verso est, fino a che, la scorsa estate, la linea del fronte si è stabilizzata a Sirte.

Un cessate il fuoco concordato in autunno ha poi permesso il lancio di un processo diplomatico sotto l’egida delle Nazioni Unite e che, lo scorso mese di febbraio, è sfociato nell’accordo alla base della nascita del governo votato mercoledì dal parlamento riunitosi proprio a Sirte. Gli uomini selezionati per guidare il processo di transizione avevano suscitato inizialmente non poche sorprese, visto che tra di essi non figuravano quelli più noti e presumibilmente favoriti, come il presidente della Camera dei Rappresentanti, espressione del centro di potere della Libia orientale, Aguila Saleh.

Il compromesso sottoscritto a Ginevra prevede la creazione di un Consiglio Presidenziale di tre membri, guidato dal diplomatico Mohammad Younes Menfi. Il capo del governo sarà invece l’uomo d’affari Abdelhamid Dbeibah. Il suo gabinetto nasce però già con ombre pesanti, come dimostra il rinvio di un giorno dell’approvazione del parlamento a causa delle accuse di corruzione indirizzate al neo-premier. Grosse somme di denaro sono infatti circolate abbondantemente nel corso delle trattative per la scelta dei componenti del governo di transizione. Ciò non ha comunque impedito alle Nazioni Unite, ai governi stranieri con interessi in Libia e alle stesse fazioni che si contendono il potere nel paese di esprimere soddisfazione e fiducia per la strada intrapresa questa settimana.

Quello guidato da Dbeibah è d’altronde il primo governo nominalmente unitario che la Libia è in grado di esprimere da quasi sette anni. La sua autorità e capacità di condurre il paese verso elezioni e una nuova Costituzione saranno tutte da verificare, malgrado le parti coinvolte si siano pubblicamente impegnate per questi obiettivi. Il problema è che sul campo virtualmente ogni attività e istituzione rimane sotto il controllo delle stesse fazioni responsabili del caos odierno, così come queste ultime continuano a fare riferimento alle due amministrazioni tra le quali è divisa la Libia e, a loro volta, ai paesi che poco o nulla hanno fatto per onorare un recente ultimatum entro il quale avrebbero dovuto essere ritirate tutte le forze straniere sul territorio libico.

Nonostante il cauto entusiasmo ostentato da più parti per gli eventi dei giorni scorsi, le incognite sul futuro della Libia restano dunque moltissime. Gli interessi in gioco sono enormi e gli stessi segnali di un’intensificazione dell’impegno americano in parallelo all’installazione di Joe Biden alla Casa Bianca non promette niente di buono, soprattutto se si pensa al livello di coinvolgimento in Libia di paesi rivali di Washington nelle questioni più calde della regione, come Russia e Turchia.

L’impressione che si ricava dall’accordo raggiunto grazie all’ONU è in definitiva che esso venga considerato come un momento utile per stabilizzare una situazione ormai sull’orlo del baratro e, da qui, rilanciare poi la competizione per assicurare alle potenze coinvolte la maggiore influenza e il maggiore controllo possibile sulla Libia e le sue ricchezze.

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