Secondo un recente studio di un’organizzazione non governativa americana, nel corso del 2020 il numero di giornalisti arrestati negli Stati Uniti è stato quasi tre volte superiore a quello registrato l’anno precedente in Cina e in Turchia. Se per il momento le conseguenze per i primi non sembrano essere così pesanti come quelle spesso riservate da questi ultimi paesi ai giornalisti detenuti o condannati, la tendenza e alcune circostanze particolari, evidenziate dalla ricerca stessa, sono ampiamente sufficienti a testimoniare il deterioramento in atto del clima democratico in America.

 

I dati in questione sono stati raccolti nell’ambito del progetto “U.S. Press Freedom Tracker” che due importanti organizzazioni americane a difesa della libertà di stampa gestiscono da qualche anno. Nell’indagine sono stati analizzati anche gli episodi che hanno visto le autorità e le forze di sicurezza governative o locali minacciare in qualche modo il lavoro dei giornalisti, garantito dal Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti.

I numeri che sono emersi appaiono allarmanti, anche se poco sorprendenti, soprattutto se si considera che sono destinati a salire, visto che decine di casi di abusi sono ancora oggetto di ricerche e approfondimenti da parte degli autori della ricerca. Malgrado ciò, dall’inizio dell’anno e fino al 10 dicembre scorso sono stati almeno 117 i giornalisti arrestati negli USA. Questo numero è quasi due volte superiore agli arresti accertati complessivamente nei tre anni precedenti (48 nel 2017; 11 nel 2018; 9 nel 2019).

L’impennata degli arresti è in pratica la conseguenza della risposta messa in atto dalla classe dirigente americana a una delle più serie minacce alla stabilità sociale degli Stati Uniti negli ultimi decenni, vale a dire l’ondata di proteste popolari esplose in decine di città principalmente contro la brutalità della polizia tra la primavera e l’estate di quest’anno. Il punto di svolta è stato il brutale assassinio ad opera di agenti della polizia di Minneapolis dell’afro-americano George Floyd il 25 maggio scorso. Nei quasi cinque mesi precedenti questa data erano stati arrestati solo due giornalisti negli USA, mentre nella sola settimana dal 29 maggio al 4 giugno si è registrato un numero di detenzioni superiore a quello ottenuto sommando i dati degli anni 2017, 2018 e 2019.

Queste manifestazioni si erano trasformate in un’autentica ribellione contro forze di polizia che uccidono in media più di mille americani ogni anno. I partecipanti alle proteste avevano poi dato sfogo in molti casi a frustrazioni più generali per le condizioni economiche e sociali degli Stati Uniti, innescando per questo la dura repressione delle autorità, con il risultato che a pagare in maniera salata sono stati frequentemente coloro che documentavano ciò che stava accadendo nelle strade.

Va ricordato che il presidente Trump aveva minacciato di inviare l’esercito per reprimere le proteste e, se anche i vertici delle forze armate avevano frenato su questa ipotesi, le autorità statali di entrambi i partiti hanno fatto ampio uso della Guardia Nazionale, giustificando il pugno di ferro con gli sporadici episodi di vandalismo accaduti in quelle settimane.

Alla fine, la reazione delle forze dell’ordine è stata spesso violenta e l’offensiva contro i giornalisti deliberata e di vasta portata. Oltre agli arresti di cui si è già parlato, il progetto “U.S. Press Freedom Tracker” ha lavorato su oltre mille “incidenti”, tra cui più di 300 aggressioni, 75 danneggiamenti di attrezzature giornalistiche e decine di fermi temporanei e perquisizioni. Nonostante il bilancio drammatico, al momento non sembra esserci un solo agente di polizia sotto indagine, né tantomeno incriminato. 16 sono invece i giornalisti con un procedimento penale pendente, di fatto soltanto per avere svolto il loro lavoro.

Come accennato all’inizio, i numeri degli attacchi alla libertà di stampa negli Stati Uniti assumono un rilievo preoccupante se confrontati ad esempio con la situazione di Cina o Turchia, due dei paesi maggiormente bersagliati dalle ONG e dai governi occidentali per il trattamento che riservano ai giornalisti. Nel 2019, le carceri di Cina e Turchia ospitavano il numero più alto di giornalisti del pianeta, rispettivamente 48 e 47. Per lo Stockholm Center for Freedom, dal primo gennaio al 10 novembre 2020 sempre in Turchia sono stati invece 93 i giornalisti arrestati e in attesa di processo.

Ad oggi non sono documentati casi di detenzione di giornalisti negli USA, ma l’altissimo numero di quelli arrestati e poi rilasciati o ancora sotto processo rappresenta un campanello d’allarme serissimo. La rapidità con la quale il lavoro del giornalista sta diventando pericoloso è dimostrata ad esempio dal fatto che, in occasione delle convention di quest’anno del Partito Repubblicano e di quello Democratico, i reporter presenti in loco avevano spesso evitato di indossare i badge riservati alla stampa per non rischiare di essere presi di mira in caso di manifestazioni di protesta.

Questo rischio è da collegare in buona parte proprio al comportamento del presidente degli Stati Uniti. Nel periodo delle proteste nelle città americane, Trump aveva più volte alimentato attacchi più o meno espliciti contro i giornalisti e, più in generale, durante tutto il suo mandato ha preso di mira la stampa USA con il pretesto della proliferazione di “fake news” sui media ufficiali. Secondo una stima, dall’inizio della sua campagna elettorale nel 2015, sono stati quasi 2.500 gli interventi di Trump su Twitter contro la stampa.

Chi si illude che l’America sia immune da una deriva repressiva della libertà di stampa o che gli attacchi moltiplicatisi quest’anno contro i giornalisti non rappresentino un segnale inquietante, farebbe bene a considerare quanto sta accadendo da un decennio a Julian Assange. Quest’ultimo incarna l’essenza stessa del giornalismo, avendo rivelato coraggiosamente i crimini dell’imperialismo americano, ed esattamente per questa ragione è perseguitato dal governo di Washington con una ferocia bipartisan. Assange resta rinchiuso in un carcere britannico in condizioni assimilabili a “torture”, secondo quanto ha affermato l’ONU, e in attesa di estradizione negli USA dove rischia una condanna fino a 175 di carcere, se non la pena di morte.

A ingannarsi sulla natura della minaccia alla libertà di stampa negli Stati Uniti sono singolarmente anche gli stessi autori della ricerca sugli attacchi contro i giornalisti, così come alcune autorevoli organizzazioni a difesa dei diritti democratici. Nelle interviste rilasciate a margine della pubblicazione dei risultati, la responsabile del progetto “U.S. Press Freedom Tracker”, Kirstin McCudden, dopo essersi dichiarata sconvolta dai dati raccolti, ha sostanzialmente ricondotto la questione a un problema di “comunicazione tra polizia e stampa”.

Allo stesso modo, l’avvocato Vera Eidelman dell’American Civil Liberties Union (ACLU) ha spiegato che, “durante lo svolgimento di una manifestazione, può essere complicato distinguere un dimostrante da un giornalista”. In altre parole, la brutalità delle forze dell’ordine contro i giornalisti sarebbe da ricondurre alla confusione che si viene a creare nel corso delle proteste e allo stato di tensione in cui operano gli agenti di polizia, perciò quasi giustificati anche quando prendono di mira i rappresentanti della stampa.

In realtà, gli attacchi contro i giornalisti appaiono quasi sempre deliberati, proprio perché puntano a reprimere e scoraggiare l’attività di documentazione della brutalità della polizia. A dimostrarlo sono peraltro le stesse testimonianze raccolte dalle organizzazioni che difendono la libertà di stampa. Sono molti i casi, infatti, in cui i giornalisti erano stati arrestati o aggrediti mentre svolgevano il loro lavoro nel pieno delle proteste, nonostante fossero perfettamente riconoscibili o avessero inequivocabilmente e più volte informato gli agenti di polizia della loro identità.

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