Il tentativo di spallata al presidente Trump da parte del Partito Democratico americano si avvia questa settimana al definitivo fallimento con un voto al Senato di Washington dagli esiti ampiamente previsti. Le speranze quantomeno di prolungare il procedimento di impeachment e mettere in imbarazzo la Casa Bianca erano crollate venerdì scorso, quando l’aula aveva bocciato di misura la richiesta democratica di convocare nuovi testimoni a sostegno della tesi dell’accusa, primo fra tutti l’ex consigliere per la Sicurezza Nazionale, John Bolton.

Essendo in minoranza alla camera alta del Congresso, il Partito Democratico puntava a convincere alcuni senatori repubblicani “moderati”, o impegnati in una campagna “competitiva” per la loro possibile rielezione il prossimo novembre, ad appoggiare il tentativo di rimandare il voto finale sulla sorte del presidente. Solo due esponenti repubblicani – Susan Collins del Maine e l’ex candidato alla Casa Bianca Mitt Romney (Utah) – hanno però votato a favore della deposizione in aula di Bolton, bocciata così alla fine con una maggioranza di 51 a 49.

Ciò che ha prevalso nel Partito Repubblicano è stato evidentemente il calcolo politico immediato. Se vi erano probabilmente altri senatori tutt’altro che soddisfatti della condotta di Trump, soprattutto in materia di politica estera, quasi nessuno se l’è sentita di sfidare le ire della Casa Bianca. Nei giorni scorsi erano stati d’altra parte chiarissimi i messaggi più o meno espliciti che avvertivano dei guai che attendevano eventuali “ribelli” intenzionati a schierarsi con i democratici sulla questione dei testimoni.

La situazione ambigua in cui alcuni repubblicani si sono ritrovati è confermata dalle dichiarazioni rilasciate da quello che appariva come l’obiettivo principale degli sforzi del Partito Democratico, il senatore del Tennessee Lamar Alexander. Quest’ultimo ha ammesso che il comportamento di Trump è stato “inopportuno” per quanto riguarda la gestione dei rapporti con l’Ucraina, ma, a suo dire e nonostante quanto previsto dalla Costituzione USA, il giudizio sul presidente non spetterebbe al Congresso, bensì “al popolo”.

Simili teorie hanno fatto apparizioni frequenti durante l’impeachment e sono state alla base della stessa strategia difensiva di Trump. I suoi legali hanno finito per esporre una dottrina profondamente anti-democratica e anti-costituzionale che esclude qualsiasi forma di controllo e supervisione del potere esecutivo da parte di quello legislativo. In definitiva, questa logica portata alle estreme conseguenze condurrebbe niente meno che a una dittatura presidenziale.

Il Senato, ad ogni modo, voterà per il proscioglimento di Trump nella giornata di mercoledì, ovvero il giorno dopo il discorso annuale sullo “stato dell’Unione” dello stesso presidente. In esso, è estremamente probabile, Trump attaccherà in maniera pesante l’impeachment promosso dal Partito Democratico, sfruttando le vicende di questi mesi e la sua assoluzione come un’arma elettorale in previsione del voto di novembre.

In certi ambienti del Partito Repubblicano, anzi, si sta già spingendo per una possibile controffensiva. In un’intervista nel fine settimana a Fox News, il senatore Lindsey Graham, considerato tra gli alleati più fedeli di Trump, ha minacciato indagini ufficiali ai danni dell’ex vice-presidente, Joe Biden, e dell’agente della CIA da cui era partito l’impeachment con la segnalazione della famigerata telefonata del 25 luglio 2019 tra il presidente americano e quello ucraino, Volodymyr Zelensky.

Com’è ormai noto, l’impeachment era partito dalla sua decisione di congelare quasi 400 milioni di dollari in aiuti militari già stanziati per il governo di Kiev fino a che le autorità ucraine non avessero aperto indagini formali nei confronti dello stesso Biden e del figlio, Hunter, per i loro interessi nel settore energetico del paese dell’ex blocco sovietico. In gioco c’era anche la possibilità di fare luce sulle “interferenze” di certi ambienti ucraini nelle presidenziali USA del 2016 a favore di Hillary Clinton.

Le accuse dei democratici e, è bene ricordarlo, di determinati ambienti della sicurezza nazionale americana, a cominciare dalla CIA, implicavano una condotta illegale del presidente, il quale avrebbe ricattato un governo straniero per ottenere favori che lo potevano aiutare politicamente sul fronte interno. Dopo la messa in stato di accusa da parte della Camera dei Rappresentanti a dicembre, la leadership repubblicana al Senato aveva cercato da subito di chiudere rapidamente la vicenda.

Qualche concessione fatta al Partito Democratico non aveva cambiato la sostanza né gli equilibri favorevoli a Trump. Qualche dubbio almeno sui tempi del procedimento era emerso dopo la notizia, diffusa dal New York Times, dell’imminente pubblicazione di un libro di John Bolton che confermava le accuse rivolte contro il presidente. L’ex consigliere per la Sicurezza Nazionale di Trump si era detto disponibile a testimoniare in aula, ma la maggioranza repubblica ha alla fine tenuto e protetto il presidente.

Le possibilità di successo dell’impeachment erano sempre apparse inesistenti, vista la necessità di un voto contro il presidente al Senato con una maggioranza dei due terzi dei suoi membri. L’attivazione di una procedura così esplosiva e raramente usata nella storia americana poteva tuttavia consentire al Partito Democratico, almeno teoricamente, di aprire una linea d’attacco contro Trump in grado di stimolare una mobilitazione popolare contro un presidente impopolare e dalle evidenti tendenze autoritarie. L’azione dei democratici ha al contrario incontrato per lo più indifferenza e scoraggiamento, così che anche quei deputati e senatori repubblicani per nulla entusiasti di Trump hanno sentito poche pressioni ad agire contro il presidente.

La ragione principale di ciò è da ricercare nel fatto che la strategia del Partito Democratico si è basata su premesse logore e screditate. Il presunto scandalo ucraino non è stato altro che il tentativo di riciclare le accuse del “Russiagate”, fallite clamorosamente con il buco nell’acqua dell’indagine del procuratore speciale Robert Mueller. Il cosiddetto “quid pro quo”, sollecitato da Trump e oggetto dello scandalo o presunto tale, ha avuto al centro dissidi di carattere strategico, riguardanti l’offensiva contro la Russia, che interessano esclusivamente le varie fazioni della classe dirigente e dell’apparato governativo americano.

La vera colpa di Trump, agli occhi del Partito Democratico, è stata in altri termini quella di avere messo a repentaglio i piani di contenimento del Cremlino con lo stop agli aiuti militari diretti a un paese, come l’Ucraina, considerato cruciale nei piani anti-russi e su cui Washington ha investito enormemente prima e dopo il golpe di estrema destra del 2014.

Mentre Trump continua a rappresentare una serissima minaccia e la sua rimozione appare una necessità inderogabile, i leader democratici hanno optato per una battaglia artificiosa destinata a fallire. Da parte sono state infatti lasciate le questioni con le maggiori implicazioni per i principi democratici e costituzionali, come il dirottamento verso la costruzione del muro di confine col Messico di fondi stanziati dal Congresso per altre voci di spesa, la sostanziale liquidazione del diritto di asilo, la creazione di lager per la detenzione di massa di immigrati, la promozione di forze neo-fasciste o l’assassinio deliberato di un alto ufficiale iraniano che stava ricoprendo un incarico diplomatico.

La sconfitta dei leader democratici non è soltanto da ricondurre all’aritmetica, visti gli equilibri al Senato. Essa dipende in realtà dalla natura stessa del partito di opposizione negli Stati Uniti, irrimediabilmente legato a determinate sezioni dei poteri forti e, in ultima analisi, molto più spaventato da una mobilitazione dal basso contro Trump e tutto il sistema politico americano di un successo politico della Casa Bianca e dell’ulteriore accelerazione della deriva anti-democratica che è probabile attendersi dopo il fallimento dell’impeachment.

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