Più che un piano di pace o, com’è ufficialmente chiamato, una “visione per la pace”, quello presentato martedì alla Casa Bianca dall’amministrazione Trump rappresenta un tentativo cinico e brutale di ratificare unilateralmente lo status quo illegale creato da Israele in oltre mezzo secolo di crimini commessi contro la popolazione palestinese. Già defunta in partenza se considerata come un’intesa da finalizzare in maniera bilaterale, la proposta americana rompe quasi del tutto con le consuetudini tenute dai precedenti governi di Washington in questo ambito, aprendo la strada al riconoscimento di uno stato – quello di Israele – basato sull’apartheid, nonché a un meccanismo che premia l’oppressore mentre punisce la vittima.

 

Il piano Trump per il Medio Oriente è il culmine di un’accelerazione delle iniziative filo-israeliane iniziata, per quanto riguarda le misure più clamorose, nel dicembre del 2017 con il riconoscimento di Gerusalemme come capitale “indivisa” dello stato ebraico. Attraverso l’approvazione formale della sovranità israeliana sulle alture del Golan siriane, annesse nel 1981, e degli insediamenti illegali in Cisgiordania, l’amministrazione repubblicana è giunta alla fine a imporre una pseudo-soluzione alla crisi più lunga e complessa del Medio Oriente senza nemmeno consultare la parte palestinese.

L’aspetto forse più rivelatore delle manovre di Washington e Tel Aviv sulla pelle dei palestinesi è la concomitanza della presentazione della proposta americana con due eventi che dimostrano la gravità della crisi politica e morale in cui si dibattono i leader – Trump e Netanyahu – a cui va attribuita la principale responsabilità di una mostruosità simile. Il presidente USA è cioè nel pieno di un procedimento di impeachment al Congresso, mentre il premier di Israele è stato incriminato formalmente per corruzione e altri crimini dopo che il suo tentativo di ottenere l’immunità dal parlamento è fallita miseramente nella giornata di martedì.

Proprio i guai politici e legali di Netanyahu, atteso dall’ennesima elezione ai primi di marzo, hanno contribuito alla stesura del “piano di pace”, ridicolmente definito da Trump come “l’accordo del secolo”, e alla sua presentazione ufficiale in questo frangente dopo due anni di lavori coordinati dal genero del presidente, Jared Kushner.

Il regalo fatto a Netanyahu e alla destra sionista risulta talmente pieno di contraddizioni e proposte che violano il diritto internazionale, così come qualsiasi principio democratico e di semplice umanità, da avere trasformato la solita pomposa retorica di Trump in una sorta di involontaria parodia del processo diplomatico. La farsa presentata martedì è stata oltretutto accompagnata da una serie di mappe “concettuali” per mostrare i confini del futuro “stato palestinese”, che hanno accentuato ancora di più l’assurdità del piano Trump.

Ciò che verrebbe consegnato ai palestinesi in un futuro indefinito non è altro che un ammasso irrazionale di territorio ritagliato da una miriade di insediamenti israeliani fuori legge. Questi ultimi, debitamente serviti e protetti, circonderebbero in sostanza le aree riservate ai palestinesi, collegate tra loro da ponti, strade e tunnel, controllati dalle forze di sicurezza di Israele. Anche con la creazione formale di uno stato palestinese, poi, esso dovrebbe rimanere disarmato; i suoi confini, l’accesso al mare, le risorse idriche e lo spazio aereo sotto il controllo di Israele.

Uno scempio simile, che ratificherebbe il possesso da parte israeliana di circa il 90% del territorio della Palestina storica, potrebbe concretizzarsi solo nel caso vengano rispettate determinate condizioni. Prime fra tutte sono la rinuncia al “terrorismo”, ovvero alla lotta contro l’oppressione israeliana, e il riconoscimento di Israele come “stato ebraico”, accettando così lo status di cittadini di serie B dei palestinesi che vivono entro i suoi confini. In un quadro che certifica il furto colossale di terra palestinese, suona come un’ulteriore beffa la promessa americana di un periodo di quattro anni durante il quale la costruzione di nuovi insediamenti israeliani verrebbe “congelata”, in modo da garantire la sostenibilità di uno stato palestinese.

Una delle definizioni più efficaci della proposta Trump apparse sulla stampa internazionale è stata quella del commentatore di Al Jazeera, Marwan Bishara. Secondo il giornalista arabo-israeliano, il “piano di pace” della Casa Bianca consiste nel “prendere le cause del conflitto palestinese, riconfezionarle e presentarle come una soluzione permanente”. Più precisamente, spiega Bishara, per “risolvere il problema degli insediamenti illegali nei territori occupati, Trump intende legalizzarli e riconoscerli come parte integrante di Israele”.

Ancora, per “risolvere il problema dell’annessione illegale della parte occupata di Gerusalemme, Trump riconosce la città come capitale di Israele e solo di Israele”. Per “affrontare la questione dei profughi palestinesi e il loro inalienabile diritto al ritorno e al risarcimento, Trump vuole impedire” entrambe le ipotesi. Per “risolvere il problema del controllo violento, repressivo e disumano di Israele sui palestinesi, Trump intende estenderlo in maniera indefinita”. Infatti, “anche se dovessero accettare le condizioni imposte” per ottenere il loro stato, “i palestinesi rimarrebbero comunque esposti all’oppressione delle forze di sicurezza israeliane”.

Scorrendo i punti principali del piano della Casa Bianca è facile comprendere le ragioni delle durissime reazioni dei leader palestinesi e la loro decisione di rispedire al mittente gli inviti a discutere l’implementazione della proposta. La sorte di Gerusalemme è ad esempio un altro affronto ai palestinesi e la conferma che, per la loro comunità, l’adozione della “visione per la pace” di Trump comporterebbe acconsentire a condizioni che mai avevano accettato nei precedenti colloqui di pace mediati da Washington.

Come già anticipato, Gerusalemme diventerebbe la capitale soltanto di Israele, mentre le aspirazioni a fare di essa anche la capitale di un futuro stato palestinese sarebbero ridotte a una farsa. Gerusalemme viene indicata da Trump come tale, ma la capitale palestinese consisterebbe nel concreto in una manciata di villaggi nella parte orientale della città, alcuni di essi addirittura al di fuori dei confini municipali.

Una conferma del carattere totalmente favorevole a Israele del piano americano è l’annuncio, fatto da Netanyahu subito dopo la presentazione alla Casa Bianca, della discussione e probabile approvazione all’interno del suo gabinetto già domenica prossima di un provvedimento di annessione di tutti i territori occupati illegalmente in Cisgiordania. Questa mossa, oggettivamente illegale e criminale, è la diretta conseguenza di quanto contenuto nella proposta Trump e finirebbe per sancire formalmente la condizione di apartheid in cui già vivono i palestinesi.

L’esplosività di una misura di questo genere, assieme al coro di condanne internazionali che avrebbe suscitato, aveva in passato convinto i leader israeliani a evitarla e a preferire la promozione in maniera informale della costruzione di nuovi insediamenti. Il calcolo di Netanyahu è però oggi cambiato, sotto la spinta di una crisi politica interna che lo costringe a fare sempre maggiori concessioni all’estrema destra e alla luce dell’appoggio incondizionato dell’amministrazione Trump.

Quanto accaduto martedì a Washington ha già provocato proteste tra la popolazione palestinese e proprio questa opposizione riduce evidentemente le chances di implementazione del piano di Trump. Per superare le resistenze, Stati Uniti e Israele contano su due fattori. Il primo è l’improbabile piano di investimenti da 50 miliardi di dollari provenienti per lo più dal Golfo Persico che dovrebbe magicamente innescare poco meno di un miracolo economico in Palestina. L’altro è invece l’appoggio dei regimi arabi ultra-autoritari e ultra-corrotti che da tempo hanno abbandonato la causa palestinese.

Soprattutto Egitto e Arabia Saudita dovrebbero giocare un ruolo determinante e in linea con il loro avvicinamento a Israele, facilitato dalla Casa Bianca negli ultimi anni. Entrambi i regimi, infatti, hanno vergognosamente mostrato di essere disposti a valutare i contenuti del piano, sia pure mantenendo un basso profilo nelle rispettive dichiarazioni ufficiali. La loro posizione resta d’altra parte delicata, vista la contrarietà della stragrande maggioranza delle popolazioni arabe alla liquidazione dei palestinesi.

Questo dilemma lo sta vivendo ancora di più il paese maggiormente coinvolto nella crisi palestinese, la Giordania, che, come l’Egitto, ha sottoscritto un accordo di pace con Israele. La monarchia hashemita teme possibili destabilizzazioni derivanti dal piano Trump, sia per le pressioni di una popolazione che è per quasi la metà di origine palestinese sia per una possibile nuova ondata di profughi dai territori annessi da Israele.

Da Amman, perciò, sono arrivate per ora le reazioni più allarmate di tutto il mondo arabo. Un comunicato del ministero degli Esteri ha ribadito la necessità di creare “uno stato palestinese indipendente, con Gerusalemme Est come capitale, lungo i confini risalenti al 4 giugno 1967”, per poi mettere in guardia Washington e Tel Aviv dalle “pericolose conseguenze di misure unilaterali che hanno l’obiettivo di imporre una nuova realtà sul campo”.

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