Il secondo successo consecutivo alle urne del Partito Democratico Progressista (DPP) e della presidente Tsai Ing-wen a Taiwan ha confermato nel fine settimana come le tensioni tra l’isola e la madrepatria cinese siano destinate a crescere ulteriormente nel prossimo futuro. La leader taiwanese appena riconfermata nel suo incarico ha infatti rafforzato i legami con Washington in questi ultimi anni, allineando Taipei alle manovre strategiche anti-cinesi messe in atto dagli Stati Uniti in Estremo Oriente.

Il partito taiwanese tradizionalmente orientato verso la piena indipendenza da Pechino è riuscito a rimettersi in piedi e a restare al potere dopo le pesanti sconfitte incassate nelle elezioni amministrative del novembre 2018. Nonostante una crescita economica sostenuta, a pesare sul DPP erano stati in quell’occasione fattori come la disoccupazione e, soprattutto, il mancato adeguamento dei salari e le crescenti disuguaglianze sociali.

 

A distanza di poco più di un anno, nessuno di questi problemi è stato risolto, ma l’entusiasmo tutt’altro che alle stelle per l’opposizione e un’incessante campagna anti-cinese, attuata con il pieno appoggio americano, hanno alla fine rimesso in carreggiata la presidente Tsai e il suo partito. Tsai Ing-wen ha addirittura ottenuto il numero più alto di consensi – 8,17 milioni, pari al 57% – di qualsiasi altro candidato presidente da quando Taiwan ha introdotto l’elezione diretta per questo incarico nel 1996.

Il candidato di opposizione del Kuomintang (KMT), che auspica rapporti più stretti con Pechino, cioè il sindaco della città di Kaoshiung Han Kuo-yu, si è fermato al 39%, mentre deludente è stata anche la prestazione del Partito Popolare (TPP), il cui candidato, James Soong, ha raccolto poco più del 4%. Fondato dal sindaco di Taipei, Ko Wen-je, il TPP sperava di capitalizzare il malcontento diffuso verso i due principali partiti della scena politica taiwanese. Anch’esso, tuttavia, può avere pagato le posizioni più morbide assunte recentemente nei confronti della Cina da parte dei suoi leader.

L’evento maggiormente strumentalizzato dalla campagna elettorale del DPP è stato il movimento di protesta che da mesi sta interessando Hong Kong. La presidente Tsai ha sfruttato le tensioni e gli scontri nell’ex colonia britannica per alimentare un clima anti-cinese sull’isola, agitando lo spettro di un futuro autoritario e anti-democratico in caso di riunificazione con la madrepatria o di una soluzione simile a quella applicata a Hong Kong e nota come “un paese, due sistemi”. Uno snodo importante di questa campagna è stata la legge contro le “interferenze” straniere, diretta contro Pechino e approvata alla fine del 2019 al preciso scopo di fomentare il clima di isteria anti-cinese.

Questa strategia, coerente con gli orientamenti del partito attualmente al potere a Taipei, ha finito per assecondare le provocazioni di Washington nei confronti della Cina, col risultato di spingere l’intera regione, già infiammata dalle tensioni nel Mar Cinese Meridionale, sull’orlo della guerra. Pechino, com’è noto, continua a ritenere la sovranità su Taiwan come una questione vitale e, in caso di necessità, non esiterebbe a ricorrere a una soluzione militare per evitare l’indipendenza dell’isola.

Di questa atmosfera esplosiva sono ad ogni modo responsabili in primo luogo proprio gli Stati Uniti. L’amministrazione Trump ha in larga misura continuato la cosiddetta “svolta asiatica” del presidente Obama e ha anzi implementato una serie di provvedimenti in relazione a Taiwan considerati altamente provocatori dalla leadership cinese. Tra di essi vanno ricordati i ripetuti pattugliamenti navali attraverso lo stretto di Taiwan e l’approvazione di svariate forniture di armi al governo di Taipei.

Decisione più simbolica che concreta, anche se dalle implicazioni ugualmente esplosive, è stata poi la telefonata diretta tra Trump e Tsai Ing-wen del 2016, la prima tra i presidenti di USA e Taiwan dal 1979, anno in cui Washington ha riconosciuto ufficialmente la sovranità di Pechino su tutto il territorio cinese, inclusa l’isola “ribelle”. La Casa Bianca ha anche promosso una legge che facilita gli incontri tra i diplomatici di Washington e Taipei e, infine, la scorsa estate un documento strategico del Pentagono definiva Taiwan come un “paese”, mettendo in discussione apertamente la politica di “una sola Cina”, riconosciuta in maniera ufficiale dagli Stati Uniti.

La vittoria nelle elezioni di sabato di Tsai Ing-wen e del DPP assicura così un’ulteriore accelerazione in questo senso, malgrado il governo di Taiwan ostenti talvolta una certa moderazione per evitare il precipitare delle relazioni con Pechino. La riconfermata presidente Tsai, nella sua dichiarazione rilasciata alla chiusura delle urne, ha parlato esplicitamente delle “minacce alla sovranità e alla democrazia” che incombevano su Taiwan. Da Washington, invece, il segretario di Stato Pompeo si è congratulato per la vittoria della leader del DPP e per l’impegno di quest’ultima a “mantenere la stabilità nello stretto di Taiwan nonostante le incessanti pressioni” cinesi.

I calcoli del governo di Taipei appaiono rischiosi, ma tengono in considerazione anche i benefici economici prodotti dalla guerra commerciale scatenata dalla Casa Bianca contro la Cina. Nell’ultimo anno, molte compagnie taiwanesi hanno riportato sull’isola operazioni e investimenti fatti sul territorio cinese in seguito alle misure punitive americane. Ciò ha spinto verso l’alto gli indici di crescita economica taiwanesi e, nel contempo, ha alterato gli equilibri commerciali con le due potenze. Secondo i dati riportati domenica dalla Nikkei Asian Review, tra gennaio e novembre 2019 le esportazioni di Taiwan verso gli USA sono cresciute del 18%, laddove quelle dirette verso la Cina sono scese del 5%.

La Cina resta comunque il principale mercato dell’export taiwanese e le performance economiche dell’isola nel prossimo futuro resteranno legate inevitabilmente alla madrepatria. Vista la rischiosità della scommessa della presidente Tsai e del suo partito, è tutt’altro che improbabile un effetto boomerang, anche perché la strategia del suo governo consiste nel nascondere i problemi strutturali dell’isola, determinati da questioni economiche e di classe, dietro allo scontro in atto con Pechino attorno a questioni di “sovranità” e “democrazia”.

Che il DPP non goda d’altra parte della fiducia indiscutibile dell’elettorato è testimoniato dai nuovi equilibri in parlamento prodotti dal voto del fine settimana. Pur conservando la maggioranza assoluta, il partito della presidente ha perso sette seggi rispetto alle precedenti elezioni. Anche se ancora lontano dai rivali, il Kuomintang ne ha al contrario guadagnati tre. Cinque sono andati al TPP, fondato solo alcuni mesi fa, e nove a partiti minori e candidati indipendenti.

Il futuro di Taipei e degli equilibri nei rapporti tra le due sponde dello stretto di Taiwan dipenderanno così dal grado con cui la presidente Tsai e, in generale, la classe dirigente filo-americana dell’isola intenderanno continuare a perseguire politiche provocatorie nei confronti della Cina, magari affondando il cosiddetto “consenso 1992”, su cui si basano le relazioni tra le due parti, o addirittura rischiando una potenzialmente disastrosa dichiarazione di indipendenza. In questo processo svolgeranno un ruolo decisivo, com’è facile prevedere, le manovre strategiche americane e l’evoluzione dei rapporti sempre più tesi, nonostante l’apparente allentamento delle tensioni sul fronte dei dazi, tra le prime due potenze economiche del pianeta.

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