L’assassinio del generale iraniano Qasem Soleimani, ordinato la scorsa settimana dal presidente degli Stati Uniti Trump, ha provocato un legittimo senso di repulsione in tutto il mondo nei confronti della brutalità dei metodi dell’imperialismo americano. In patria e, frequentemente, tra i governi occidentali, l’attacco deliberato nei pressi dell’aeroporto di Baghdad è stato invece accolto con estrema ambiguità da parte dei media ufficiali e di gran parte della classe politica, inclusa quella di orientamento teoricamente progressista.

 

A Washington, l’attitudine generale può essere riassunta come segue: Soleimani era un “terrorista” responsabile della morte di migliaia di persone e la sua fine ha reso l’America più sicura, ma la decisione di Trump è stata imprudente perché non ha considerato le possibili conseguenze che ne deriveranno e non è stata coordinata o notificata in maniera opportuna al Congresso.

In definitiva, il numero uno delle Forze “Quds” dei Guardiani della Rivoluzione iraniani meritava di morire e questo giudizio, espresso da molti oppositori nominali di Trump tra politici e giornalisti, finisce in sostanza per giustificare l’assassinio, da cui questi stessi ambienti prendono le distanze solo in maniera apparente e senza giudicarne le implicazioni morali e legali.

La gravità di questa interpretazione è dimostrata dal fatto che Soleimani non era un “terrorista” né un membro di un’organizzazione “terroristica”, malgrado fosse sulla lista nera della Casa Bianca, ma un alto ufficiale militare e, di fatto, un leader con incarichi politici e diplomatici di un paese di oltre 80 milioni di abitanti. Inoltre, secondo fonti irachene citate dal giornalista veterano del Medio Oriente, Elijah Magnier, Soleimani era in missione diplomatica a Baghdad perché convocato dal primo ministro, Adel Abdul Mahdi, in risposta a una richiesta di mediazione avanzata proprio dall’amministrazione Trump.

Se, dopo i fatti di venerdì scorso, si fosse cercata una condanna esplicita e senza riserve nella galassia politica e mediatica “mainstream” americana di quello che è stato a tutti gli effetti un atto criminale, i risultati sarebbero stati quindi sconfortanti. Tra gli esponenti di spicco della politica USA, l’unica eccezione è rappresentata dalla dichiarazione del candidato alla nomination democratica, Bernie Sanders. Il senatore del Vermont è stato tra i pochi a definire l’azione di Trump un “assassinio” e una “pericolosa escalation” che rischia di precipitare il Medio Oriente in una nuova guerra di vasta portata. Sanders ha poi introdotto al Congresso una proposta di legge con l’obiettivo di restringere i margini di manovra della Casa Bianca se la crisi iraniana dovesse sfociare in un conflitto.

Altri candidati alla presidenza per il Partito Democratico – da Joe Biden a Elizabeth Warren – hanno a loro volta condannato Trump, ma in pratica solo per la mancanza di prospettiva della sua decisione, avallando invece più o meno esplicitamente l’assassinio di Soleimani, così come del vice-comandante delle Unità di Mobilitazione Popolare irachene sciite, Abu Mahdi al-Muhandis.

L’atteggiamento dei politici e dei media “liberal” americani, nonostante le divergenze di natura tattica con l’amministrazione repubblicana, hanno così assicurato alla Casa Bianca un appoggio sostanziale che, è bene tenerlo presente, si trasformerà quasi certamente in un consenso univoco in caso di guerra aperta contro la Repubblica Islamica.

L’assenza di una vera e propria condanna dell’operazione contro Soleimani è spiegata dal fatto che i leader democratici, così come i principali media americani, sono sulla stessa lunghezza d’onda della Casa Bianca per quel che riguarda gli interessi americani in Medio Oriente. Il contenimento dell’Iran e, nello specifico, il tentativo di spezzare il meccanismo di coordinamento all’interno del cosiddetto “asse della resistenza” anti-americana, garantito in primo luogo proprio dal generale Soleimani, sono le ragioni principali dell’assassinio di quest’ultimo e rappresentano di fatto un obiettivo di tutta la classe dirigente degli Stati Uniti.

Denunciare apertamente l’assassinio avrebbe perciò implicato mettere in discussione l’intera politica iraniana di Washington, ma anche la dottrina pseudo-legale degli “assassini mirati”, elaborata e sfruttata ampiamente da Barack Obama nel corso dei suoi due mandati alla Casa Bianca.

La realtà descritta non esclude ad ogni modo riserve e perplessità per quanto accaduto a Baghdad venerdì scorso. A Washington sono in molti a temere le conseguenze della morte di Soleimani e della risposta di Teheran. Il ricorso da parte del presidente in persona a metodi criminali impossibili da dissimulare minaccia infatti di distruggere anche la residua credibilità internazionale degli Stati Uniti in un frangente segnato da crescenti rivalità tra medie e grandi potenze.

Non solo, al di là dell’arroganza delle esternazioni di Trump, anche all’interno del governo e dell’apparato militare USA è ben noto il pericolo di un possibile coinvolgimento in un conflitto con l’Iran. La Repubblica Islamica, sia direttamente sia attraverso i propri alleati nella regione, è in grado di infliggere pesanti perdite alla macchina da guerra americana e ai suoi alleati, mentre ancora più gravi potrebbero essere gli effetti sul piano economico e finanziario di un blocco delle esportazioni di petrolio, più volte minacciato da Teheran.

Questi timori sono alla base delle proposte di legge già annunciate da alcuni esponenti democratici al Congresso che intendono fermare l’escalation della crisi in atto. Oltre a quella già ricordata di Sanders, in discussione ce n’è un’altra avanzata dal senatore democratico della Virginia, Tim Kaine, e dalla deputata, anch’essa democratica, del Michigan, Elissa Slotkin, significativamente ex agente della CIA.

Le proposte fanno riferimento alla “War Powers Resolution” del 1973 che, in teoria, dovrebbe garantire l’implementazione del dettato costituzionale, secondo il quale è il Congresso a detenere il potere di dichiarare guerra. Il presidente dovrebbe avere facoltà molto limitate in questo ambito, ma gli eventi degli ultimi due decenni hanno eroso enormemente le prerogative del potere legislativo, spesso proprio con il contributo di quest’ultimo, lasciando di fatto mano libera all’esecutivo.

Qualsiasi iniziativa in questo senso sembra comunque destinata al fallimento. Se anche la Camera a maggioranza democratica dovesse approvare una legge restrittiva in tema di guerra, i repubblicani al Senato la boccerebbero. Se pure dovesse superare anche l’esame del Senato, essa andrebbe incontro al veto presidenziale e se, infine, il Congresso dovesse neutralizzare il veto, non è da escludere che Trump la ignorerebbe.

D’altra parte, le manovre per aggirare la Costituzione in materia di guerra sono state molteplici e al limite del delirante dopo l’11 settembre 2001. La stessa operazione contro Soleimani, secondo la Casa Bianca, sarebbe legittimata dalla risoluzione del 2002 del Congresso che autorizzava l’invasione dell’Iraq. In aggiunta a essa, Trump ha fatto appello al potere di auto-difesa, visto che, in base a fantomatiche informazioni di intelligence, Soleimani sarebbe stato sul punto di portare a termine un’operazione militare contro gli interessi americani in Medio Oriente.

Se, dunque, la classe politica e la stampa ufficiale, al di là delle riserve manifestate in questi giorni, hanno sostanzialmente approvato l’assassinio del generale iraniano, è facile prevedere quale livello di mobilitazione raggiungerà la macchina della propaganda USA dopo la prevedibile ritorsione di Teheran e, in una probabile pericolosissima spirale di violenze e provocazioni, la successiva e altrettanto inevitabile risposta della Casa Bianca.

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