L’assassinio del leader dello Stato Islamico (ISIS), Abu Bakr al-Baghdadi, avvenuto presumibilmente nella mattinata di domenica in Siria, servirà a poco o nulla per stabilizzare la situazione nel paese in guerra o a mettere il Medio Oriente e il resto del pianeta al riparo dalla minaccia del fondamentalismo islamista. Il raid delle forze armate americane solleva però moltissimi dubbi e interrogativi, a cominciare dalla coincidenza dell’operazione con un periodo di profondi mutamenti degli scenari siriani.

 

La prima considerazione sulla morte, o presunta tale, di al-Baghdadi riguarda i possibili vantaggi politici che potrebbero derivare per il presidente americano Trump. Se qualche dubbio poteva esserci sulle intenzioni di quest’ultimo, le prime ore di domenica li hanno fugati in fretta. Trump ha anticipato il raid con un annuncio su Twitter di un evento di estrema importanza che stava per accadere e, una volta chiusa l’operazione, ha fatto di tutto per avere la maggiore esposizione mediatica possibile che gli garantisse un qualche vantaggio politico.

L’importanza degli eventi che sarebbero avvenuti nella provincia di Idlib sono da collegare per Trump al tentativo di allentare le pressioni dei suoi oppositori interni, alimentate anche dal procedimento di impeachment, seguite all’annuncio del relativo disimpegno dalla Siria e del “tradimento” delle milizie curde.

In perfetto stile Trump, la ricostruzione degli eventi che avrebbero portato alla fine del numero uno dell’ISIS è stata caratterizzata da un linguaggio particolarmente crudo e da una descrizione degli ultimi istanti di vita dello stesso al-Baghdadi piuttosto difficile da credere. Nonostante il tentativo del presidente americano di ingigantire i crimini e l’importanza dell’ormai ex califfo dello Stato Islamico, la sua morte, se fosse realmente confermata, avrebbe in realtà un trascurabile impatto sia sulle sorti dell’organizzazione che guidava sia sul quadro generale del conflitto siriano.

La diffusione della notizia della morte di al-Baghdadi, il quale si sarebbe fatto esplodere assieme a tre figli una volta braccato dalle forze speciali USA, ha ricalcato in larga misura quella di Osama bin Laden nel 2011. Di essa, Trump ha ripreso in parte anche la strategia di comunicazione, facendo circolare ad esempio un’immagine di dubbia autenticità nella quale è ritratto mentre segue in diretta video dalla “Situation Room” della Casa Bianca le operazioni sul campo, come fece Obama in occasione del raid in Pakistan contro bin Laden.

Come nel 2011, inoltre, è estremamente probabile che i particolari che emergeranno forse già nei prossimi giorni dell’incursione in Siria metteranno ancora di più in dubbio la ricostruzione offerta da Trump. Già da ora, sono molteplici i motivi che invitano a un certo scetticismo. Il governo russo, ad esempio, ha emesso un comunicato che sembra smentire la versione proposta da Washington, peraltro accolta senza la minima esitazione dalla stampa ufficiale americana.

Il ministero della Difesa di Mosca ha fatto sapere cioè di “non avere prove certe” dell’uccisione di al-Baghdadi in seguito a un blitz dei militari americani nella provincia di Idlib. La Russia ha poi sollevato una delle perplessità probabilmente più diffuse tra quanti seguono anche in maniera superficiale gli eventi relativi alla Siria, vale a dire la presenza del capo dell’ISIS proprio a Idlib. In questo territorio della Siria nord-occidentale trovano infatti rifugio milizie e gruppi fondamentalisti che fanno generalmente riferimento ai seguaci di al-Qaeda, da tempo nemici giurati dell’ISIS.

Il portavoce del ministero della Difesa russo ha infine chiarito che l’impatto sulla situazione in Siria e sulle “azioni dei terroristi presenti a Idlib della nuova morte” di al-Baghdadi, dichiarato erroneamente deceduto in varie occasioni nel recente passato, sarà di fatto insignificante. L’ISIS, d’altronde, da oltre un anno è stato sostanzialmente sconfitto grazie al contributo dell’esercito regolare siriano e dei suoi alleati, mentre da tempo l’influenza del suo leader storico risulta con ogni probabilità ridotta ai minimi termini.

Il dato più significativo dei fatti di domenica riguarda più che altro la posizione in cui essi mettono Trump e gli intrecci con le manovre attorno alle decisioni riguardanti il nord-est della Siria, oggetto ai primi di ottobre di una nuova invasione delle forze turche. Anche in questo caso è per il momento la confusione a prevalere. Trump ha ringraziato per la loro collaborazione la Russia, l’Iraq, la Siria e la Turchia, anche se la maggior parte dei governi di questi paesi non ha dato alcuna conferma della partecipazione alle operazioni, sia pure soltanto in termini di condivisione di informazioni. I curdi siriani, invece, dopo essere stati scaricati dagli ex alleati americani, hanno da parte loro ostentato il lavoro svolto da mesi assieme all’intelligence USA per la localizzazione di al-Baghdadi.

In merito alla Turchia è però realistico pensare a una collaborazione più o meno decisiva con Washington. A Idlib resta una sacca di resistenza jihadista nella quale sono tuttora attivi gruppi armati legati ad Ankara. Non è perciò da escludere che Erdogan abbia sbloccato l’informazione sulla presenza di al-Baghdadi in quest’area in cambio della decisione di Trump di dare il via libera alle operazioni della Turchia contro i curdi siriani.

Resta il fatto, nonostante tutto, che i toni trionfalistici della Casa Bianca e il coro di elogi, se non al presidente Trump, alle forze armate da parte di tutta la classe politica americana, rappresentano un nuovo rivoltante esempio di unità dell’apparato di potere USA nel celebrare un crimine e una finta vittoria contro un fenomeno, come quello del fondamentalismo sunnita, che è il prodotto stesso dell’imperialismo a stelle e strisce.

Come già bin Laden e al-Qaeda, anche al-Baghdadi e l’ISIS, nella più prudente delle interpretazioni, sono il riflesso delle politiche distruttive degli Stati Uniti in Medio Oriente, fatte di guerre senza fine, distruzione di interi paesi e società e divisioni settarie alimentare appositamente per avanzare le proprie mire strategiche.

La stessa biografia di al-Baghdadi negli ultimi quindici anni descrive una parabola che si intreccia con le operazioni americane in Iraq e in Siria: dalla radicalizzazione nel famigerato carcere USA di Camp Bucca alla liberazione e alla nascita dello Stato Islamico inizialmente sfruttato negli sforzi per il cambio di regime a Damasco. Una volta entrato in Iraq, l’ISIS diventò poi una minaccia anche per gli Stati Uniti, ma allo stesso tempo offrì l’occasione di riportare migliaia di truppe americane in questo paese e per impiantare un contingente militare anche in Siria, sia pure senza alcun fondamento legale.

In definitiva, per quanto cruente siano state le imprese dell’ISIS sotto la guida di al-Baghdadi, i crimini del “califfo” e dei suoi adepti impallidiscono di fronte alla distruzione portata dagli Stati Uniti, dalla sua classe dirigente e dalla sua macchina da guerra, in Medio Oriente.

L’ennesima morte annunciata del più recente simbolo del jihadismo, prima creato e poi distrutto dalle decisioni prese a Washington, non contribuirà in ogni caso a riportare la pace in Siria. Gli eventi relativi alla sorte di al-Baghdadi, infatti, coincidono con i più recenti segnali lanciati dalla Casa Bianca all’apparato militare e dell’intelligence USA che sembrano ridimensionare il tentativo di abbandonare il teatro di guerra siriano attraverso il mantenimento di qualche centinaia di soldati nel paese con il compito di controllare l’accesso e lo sfruttamento ai pozzi petroliferi fino a poco tempo fa nelle mani delle milizie curde.

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