Mentre la Casa Bianca si appresta ad applicare sanzioni sostanzialmente inutili contro la Turchia, i piani di guerra di Erdogan continuano per il momento a essere attuati nel nord-est della Siria in uno scenario però in piena evoluzione. Il nuovo conflitto sul fronte siriano sta in particolare spingendo sempre più ai margini delle vicende mediorientali gli Stati Uniti e rafforzando in maniera considerevole la posizione di Mosca. Se e quando il cerchio dovesse chiudersi, Ankara e Damasco finiranno in larga misura per vedere soddisfatti i propri interessi, lasciando Washington in una situazione nuovamente precaria e i curdi siriani a raccogliere i cocci di una strategia andata in frantumi a causa delle scelte dei propri leader ancor prima del più che prevedibile tradimento americano.

 

Lunedì, il presidente Trump ha firmato una serie di provvedimenti che colpiscono un paio di ministri e altri esponenti del governo turco, così come saranno aumentati i dazi già in vigore sulle esportazioni di acciaio dal paese euroasiatico. Tra le misure che dovrebbero “distruggere l’economia turca”, come minacciato nei giorni scorsi da Trump, c’è anche la sospensione immediata dei negoziati tra Washington e Ankara su un trattato bilaterale di libero scambio dal valore di circa 100 miliardi di dollari.

Le sanzioni contro la Turchia hanno in primo luogo poco senso, essendo l’invasione del nord-est della Siria favorita dal sostanziale via libera proprio dell’amministrazione Trump. La decisione della Casa Bianca di lunedì è poi in primo luogo la conseguenza delle pressioni interne di una classe politica e un apparato di potere fortemente preoccupati per le conseguenze dell’eventuale ritiro dalla Siria in termini di immagine e di influenza degli Stati Uniti in Medio Oriente.

La mossa di Trump ha così un evidente accento di disperazione, come dimostra tra l’altro il repentino ripiego del contingente militare americano che era stanziato nelle aree coinvolte dalle operazioni turche. Non solo, nelle scorse ore il capo di Stato Maggiore USA, generale Mark Milley, aveva praticamente implorato la sua controparte russa a intercedere con Ankara per evitare il precipitare della situazione. Il vice-presidente Mike Pence ha inoltre chiesto a Erdogan un immediato cessate il fuoco durante un recente colloquio telefonico e sarà in Turchia nei prossimi giorni assieme al neo-consigliere per la Sicurezza Nazionale, Robert O’Brien.

In Europa, intanto, si stanno moltiplicando gli appelli a fermare la guerra contro i curdi, assieme alle denunce delle forze di invasione usate da Ankara, dipinte, in gran parte a ragione, come barbare e senza scrupoli. Di questa indignazione, soprattutto da parte di politici, commentatori e attivisti teoricamente di sinistra, non vi è stata tuttavia traccia negli anni del conflitto siriano, quando le stesse forze appoggiate dalla Turchia e spesso da Washington partecipavano alla campagna militare contro il governo di Damasco sotto le insegne del fondamentalismo jihadista.

La decisione di Trump di liquidare le milizie curde siriane ha comunque dato il via a un’evoluzione sostanziale del quadro siriano. I vertici delle YPG curde, dopo un’umiliante richiesta di conferma a Washington del tradimento consumato dalla Casa Bianca, hanno fatto l’unica scelta a loro disposizione, cioè stipulare un accordo con Assad, inevitabilmente con la mediazione di Mosca. L’esercito arabo siriano si è così mosso verso nord-est e, senza combattere, è tornato a controllare città come Kobane e Manbij, per anni nelle mani delle milizie curde e delle forze di occupazione USA. Martedì, anche unità russe hanno occupato postazioni abbandonate dai militari americani nelle aree di confine con la Turchia.

L’intervento di Damasco peserà in maniera decisiva sulla strategia bellica di Erdogan, visto che le forze turche eviteranno di scontrarsi direttamente con quelle di Damasco, anche perché sostenute da Mosca. Il processo innescato in questo modo dovrebbe portare, nella migliore delle ipotesi e salvo contrattempi tutt’altro che da escludere in un teatro di guerra così complesso, al ritorno sotto il  controllo governativo di tutto il nord-est della Siria.

Il nodo centrale di queste dinamiche è la partnership tra Turchia e Russia. Erdogan, cioè, non ha alcuna intenzione di incrinare i rapporti con Mosca “per una serie di ragioni di ordine strategico ed economico”, come ha spiegato il giornalista Pepe Escobar sulla testata on-line AsiaTimes. Queste ultime vanno dal “gasdotto Turk Stream”, che dovrebbe trasportare il gas russo verso l’Europa attraverso il Mar Nero, alla partecipazione di Ankara ai progetti inclusi nella “Nuova Via della Seta” cinese, dalle relazioni con “l’Unione Economica Euroasiatica”, promossa da Putin, all’ingresso come “membro a tutti gli effetti nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai”, di cui la Russia, assieme alla Cina, è uno dei paesi fondatori. In breve, a spingere verso una possibile risoluzione condivisa da Mosca e Ankara della crisi in Siria nord-orientale sembrano essere le dinamiche legate all’integrazione euroasiatica a cui la Turchia di Erdogan guarda ormai da tempo.

D’altro canto, Russia, Iran e lo stesso Assad non intendono accettare un’occupazione turca di media o lunga durata di una parte del territorio siriano, oltretutto ricco di risorse energetiche. Il governo di Mosca, subito dopo l’inizio della campagna di Erdogan in Siria la scorsa settimana aveva sottolineato come l’integrità territoriale del paese mediorientale avrebbe dovuto essere rispettata. Il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, tuttavia, aveva subito affermato di “comprendere le preoccupazioni della Turchia in merito alla sicurezza dei propri confini”. Ciò si riferiva ovviamente all’obiettivo dichiarato di Ankara di neutralizzare qualsiasi ambizione a creare uno stato curdo indipendente o autonomo in Siria nord-orientale, per evitare il contagio di spinte separatiste, favorite dai legami tra YPG e PKK.

Putin e Erdogan, appena prima dell’ingresso dei militari turchi in Siria, avevano anch’essi discusso telefonicamente della situazione sul campo. Le ricostruzioni russe del colloquio delineavano un quadro tutt’altro che teso. Anzi, i due leader sembravano concordare sulla necessità di evitare lo smembramento dello stato siriano e sul rispetto della sovranità di questo paese.

La mediazione russa nell’intreccio di rapporti tra Ankara e Damasco e tra lo stesso Assad e i curdi siriani potrebbe dunque condurre a una situazione nella quale le esigenze relative alla sicurezza della Turchia troveranno risposta, anche se non attraverso le armi. Il blog indipendente MoonOfAlabama ha ipotizzato così gli sviluppi nel prossimo futuro: “le Forze Democratiche Siriane, a maggioranza curda, saranno sciolte e i soldati che ne fanno parte integrati nell’esercito di Damasco. Il governo siriano sopprimerà anche l’amministrazione autonoma curda e requisirà le armi fornite alle milizie dell’YPG dagli Stati Uniti”. Tutto ciò richiederà del tempo, ma “alla fine, garantirà ad Ankara che le formazioni curde non entreranno in Turchia per combattere a fianco dei separatisti del PKK”.

In altri termini, sarebbe il legittimo governo siriano a garantire la sicurezza della Turchia in relazione alla minaccia curda, vera o presunta che sia. In cambio, i curdi siriani saranno entro certi limiti protetti dall’aggressione turca e risparmiati dalla ritorsione di Damasco, nonostante in questi anni abbiano di fatto permesso l’occupazione americana della Siria dietro la facciata della guerra allo Stato Islamico (ISIS).

Al di là dell’ironia del fatto che la Russia, assieme all’Iran e al regime di Assad, dopo essere stati oggetto di attacchi incessanti e del disprezzo dell’Occidente, diventeranno i salvatori dei curdi, a favore dei quali lo stesso Occidente si sta mobilitando, è il disegno strategico di Mosca a dover essere evidenziato. Anche senza arrivare a ipotizzare l’esistenza di un piano architettato ad hoc, il riepilogo degli scenari siriani proposto sempre dal blog MoonOfAlabama è utile a comprendere il formarsi degli incastri in corso.

“La Russia cercava da tempo di trascinare la Turchia nella propria orbita”, perciò, quando si sono verificate le condizioni, “Mosca, Teheran e Damasco hanno acconsentito a un’invasione limitata della Siria da parte di Ankara”, in modo da favorire l’evacuazione delle forze USA. Putin, quindi, “ha appoggiato in buona parte l’azione turca, fissando però allo stesso tempo alcuni paletti”. Trump, da parte sua, “cercava l’occasione di ritirare il contingente americano dalla Siria”, nonostante le pressioni sul fronte domestico, e la mossa della “Turchia (e della Russia)”, alla fine, “ha fornito il pretesto di cui aveva bisogno”.

L’evoluzione militare in Siria nord-orientale resta ancora tutta da verificare e la fine delle ostilità potrebbe essere ancora lontana. Delicatissima e con implicazioni inquietanti sarà in particolare la questione dei detenuti appartenenti all’ISIS nelle carceri curde, la cui eventuale “dispersione” rischia di diventare nuovamente un’arma a disposizione delle mire strategiche dell’Occidente e dei regimi arabi sunniti.

Le ultime decisioni di Washington e Ankara, assieme alle manovre strategico-diplomatiche di Mosca, appoggiate da Teheran e Damasco, potrebbero avere tuttavia avviato un cambiamento determinante per il conflitto siriano, portando quanto meno a una nuova fase della crisi che sembra prefigurare, da un lato, un ulteriore indebolimento delle posizioni americane nella regione e, dall’altro, il clamoroso successo russo nel sottrarre un membro cruciale della NATO, come la Turchia, dalla sfera di influenza degli Stati Uniti.

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