La recentissima decisione dell’amministrazione Trump di fornire a Taiwan un nuovo pacchetto di armamenti ha provocato, com’era prevedibile, la durissima reazione cinese, contribuendo a creare un clima sempre più infuocato tra l’isola e la madrepatria che, nonostante le rassicurazioni americane, minaccia in primo luogo proprio la sicurezza di Taipei. Lunedì, il dipartimento della Difesa americano ha notificato al Congresso di Washington l’approvazione di una vendita di armi a Taiwan per un valore di 2,2 miliardi di dollari. La fornitura è suddivisa in due tranche. La prima, da due miliardi, include 108 carri armati M1A2T Abrams e altri veicoli pesanti da guerra e da trasporto. La seconda, da oltre 220 milioni, è composta invece da 250 missili terra-aria Stinger. Come richiesto dalle norme USA, il Congresso avrà 30 giorni di tempo per respingere eventualmente la vendita o sollevare obiezioni. Vista la sostanziale natura bipartisan dell’impulso alla militarizzazione di Taiwan e dell’approccio sempre più aggressivo alla Cina, la fornitura di armi non dovrebbe però incontrare nessun ostacolo legislativo.

 

 

La vendita fa seguito a una delle varie richieste di nuove armi sottoposte agli Stati Uniti dal governo taiwanese della presidente Tsai Ing-wen. Quest’ultima appartiene al Partito Progressista Democratico, tradizionalmente più ostile nei confronti di Pechino e vicino a posizioni indipendentiste rispetto all’altra principale formazione politica dell’isola, il Kuomintang. Le autorità di Taipei avevano chiesto anche migliaia di altri missili (TOW e Javelin), per un valore di circa 400 milioni di dollari, e, ancora a febbraio, 66 aerei da guerra F-16V, sulla cui vendita il Pentagono non si è ancora espresso.

 

Quello che starebbe per andare in porto è il quarto trasferimento di armi a Taiwan di un certo peso sotto l’amministrazione Trump e nettamente il più ingente in termini finanziari. Nell’estate del 2017 era stato approvato un pacchetto da quasi 1,5 miliardi di dollari, seguito nel settembre dell’anno successivo da 300 milioni in ricambi destinati a velivoli da combattimento e lo scorso aprile da altri 500 milioni in componenti ancora per jet di fabbricazione americana e sottoforma di addestramento di piloti taiwanesi.

 

La notizia dell’ultima fornitura di armamenti “made in USA” è stata accompagnata da dichiarazioni euforiche da parte americana e di esponenti del governo di Taiwan. Per il portavoce della presidente, si tratterebbe di un incremento degli “investimenti nel settore della difesa” e di un costante rafforzamento dei “legami nell’ambito della sicurezza con gli Stati Uniti”. Lo stesso portavoce ha aggiunto che l’impegno di Washington è quello di “assistere Taiwan nel consolidamento delle sue capacità difensive” e, di questo, il governo di Taipei ne è “profondamente grato”.

 

L’iniziativa della Casa Bianca e del Pentagono fa riferimento alla legge del Congresso sulle Relazioni con Taiwan del 1979 (“Taiwan Relations Act”) e al documento del 1982 noto come le “Sei Garanzie”. La prima era stata approvata dopo il disgelo con la Cina e la conseguente rottura formale dei rapporti diplomatici tra USA e Taiwan. Il nuovo corso con Pechino era stato deciso in funzione anti-sovietica e avrebbe inaugurato un atteggiamento ambiguo nei confronti dell’isola che il governo cinese si ripropone di riunire alla madrepatria. La legge del 1979 prevedeva appunto la fornitura di armi a Taiwan, ufficialmente di natura difensiva contro la minaccia di invasione cinese. Il documento del 1982, invece, impegnava tra l’altro il governo americano a non fissare una data precisa allo stop delle vendite di armi a Taipei.

 

Che Stati Uniti e Taiwan insistano sul carattere di difensivo delle armi e sulla necessità di creare un deterrente alla minaccia cinese è ovviamente scontato. Nella realtà, però, il rafforzamento dell’alleanza tra Washington e Taipei e il continuo trasferimento di armi all’isola sollevano un interrogativo inquietante sugli effettivi vantaggi strategici e militari per quella che Pechino continua a considerare come una sorta di provincia ribelle.

 

La forza del deterrente e le capacità dei sistemi difensivi di Taiwan, per quanto alimentati dall’assistenza americana, continuano a essere insufficienti a contrastare un eventuale azione militare cinese e, oltretutto, proprio il continuo processo di militarizzazione di questi anni rischia seriamente di scatenare le ire di Pechino. Un conflitto aperto, com’è facile immaginare, implicherebbe molto probabilmente la distruzione di Taiwan, con o senza l’intervento degli Stati Uniti.

 

Piuttosto che ostentare la solidità dell’alleanza con Washington, il governo di Taiwan dovrebbe provare a chiedersi quale sia l’elemento propulsore delle iniziative teoricamente a suo favore dell’amministrazione Trump. L’interesse degli Stati Uniti per Taiwan non è cioè di natura disinteressata, ma rientra nelle manovre in atto per accerchiare la Cina, nel quadro dell’offensiva volta a contenere quella che sempre più sta diventando la principale minaccia alla supremazia planetaria americana.

 

Nell’immediato, come hanno confermato fonti interne alla Casa Bianca, le pressioni su Pechino tramite Taiwan dovrebbero essere ascritte anche alla strategia commerciale USA. L’isola sarebbe in altre parole una merce di scambio per ottenere concessioni in un eventuale accordo sui dazi o sul ridimensionamento delle politiche di sviluppo tecnologico e industriale cinese.

 

Come in altre situazioni calde del pianeta, a cominciare dall’Iran, anche in questo caso la strategia americana rischia di avere l’effetto contrario a quello desiderato e di andare incontro a un fallimento totale, col risultato inoltre di moltiplicare il rischio di un conflitto devastante. La Cina non è infatti disposta a cedere minimamente, poiché la questione della sovranità su Taiwan è, in maniera pura e semplice, vitale per il governo di Pechino e, di conseguenza, le mosse come quella di questa settimana non fanno che provocare un irrigidimento e innescare una pericolosa escalation di minacce. Tanto più se si considera che l’interesse ultimo degli Stati Uniti, come può facilmente intuire la leadership cinese, è quello di fare di Taiwan una base non per condurre azioni difensive contro la Cina, bensì una futura guerra di aggressione.

 

Per comprendere la reazione cinese è sufficiente leggere l’editoriale sulla vendita di armi americane a Taiwan apparso martedì sulla testa on-line ufficiale in lingua inglese Global Times. I toni appaiono fin da subito minacciosi, soprattutto dove si afferma che il governo di Pechino “non può che risolvere da solo la questione delle forniture di armi USA a Taiwan”. La capacità di farlo esiste tutta, dal momento che “la forza della Cina è tale da rendere militarmente insignificanti i nuovi equipaggiamenti acquistati da Taiwan”.

 

Nello stesso articolo viene offerta anche un’analisi piuttosto lucida delle motivazioni americane riguardo la gestione del caso Taiwan. Per l’autore, la vendita di armi a Taiwan ha diversi obiettivi, tra cui i profitti dell’industria bellica USA, “il mantenimento della propria influenza sull’isola” e “il contenimento della Cina”. Il governo americano, però, sarebbe anche consapevole che “le forniture di armi non sono in grado di garantire un equilibrio militare nello stretto di Taiwan”. Per questo, conclude l’editoriale del Global Times, “il fulcro delle politiche americane si è spostato dalla difesa della sicurezza di Taiwan al gioco di potere con la Cina”.

 

Le autorità di Pechino sono evidentemente preoccupate che le dinamiche in atto a Washington possano condurre al ripudio della politica di “una sola Cina”, secondo la quale Taiwan fa parte appunto di quest’ultimo paese e che è stata finora alla base delle relazioni tra le prime due potenze economiche del pianeta. Questa eventuale decisione da parte della Casa Bianca determinerebbe un ulteriore gravissimo deterioramento dei rapporti bilaterali e farebbe aumentare seriamente il pericolo di uno scontro armato, visto anche che si andrebbe ad aggiungere alle altre iniziative americane contro la Cina, come le provocazioni nel mar Cinese Meridionale, già inaugurate dall’amministrazione Obama e intensificate dall’attuale presidente repubblicano.

 

Le intenzioni della Casa Bianca non sembrano tuttavia incoraggianti. Assieme alle vendite di armi, gli Stati Uniti hanno promosso incontri a livello medio-alto con esponenti del governo taiwanese attraverso l’approvazione lo scorso anno del cosiddetto “Taiwan Travel Act”. Nelle scorse settimane, la marina militare USA ha anche attraversato lo Stretto di Taiwan con due navi da guerra con la scusa di voler riaffermare la libertà di navigazione in quest’area. Recentemente, poi, un’altra provocazione americana ha suscitato le proteste cinesi, dopo che un rapporto strategico del Pentagono aveva definito Taiwan un “paese”, in contraddizione della già ricordata politica di “una sola Cina”.

 

Un nuovo motivo di scontro emergerà infine tra pochi giorni, quando la presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, trascorrerà un totale di quattro giorni in territorio americano, cioè all’inizio e alla fine della sua imminente visita in alcuni paesi centro-americani che hanno rapporti diplomatici formali con l’isola rivendicata da Pechino.

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