Gli elettori danesi hanno punito la destra ultra-liberista e xenofoba nelle elezioni generali di mercoledì, riconsegnando la maggioranza nel parlamento di Copenhagen (“Folketing”) al partito Socialdemocratico che guiderà probabilmente il paese in una coalizione di centro-sinistra. Il voto ha espresso un chiaro rifiuto delle politiche di austerity degli ultimi anni, anche se la campagna elettorale è stata in parte caratterizzata da un’accesa retorica anti-migranti, abbracciata in larga misura anche dal partito vincitore, ufficialmente di orientamento progressista.

 

 

Dal 2015 in Danimarca governava un esecutivo di minoranza espressione del partito Liberale (“Venstre”) del primo ministro uscente, Lars Lokke Rasmussen. A garantire una maggioranza era principalmente il partito Popolare Danese (DF) di estrema destra, il quale ha avuto un ruolo determinante nello spostare a destra il baricentro politico danese e nell’approvazione di misure di controllo dell’emigrazione spesso estreme se non apertamente razziste.

 

Una di queste leggi, che ricorda in maniera inquietante le persecuzioni naziste, prevede la requisizione di denaro e oggetti di valore eventualmente in possesso dei migranti per contribuire al loro mantenimento in Danimarca. Anche i socialdemocratici hanno appoggiato quest’ultimo provvedimento, così come altre iniziative simili della destra, tra cui il divieto di indossare in pubblico il burqa e il velo islamico.

 

Nel tentativo di inseguire i voti dell’estrema destra e, ancor più, per dirottare le tensioni sociali, crescenti anche in Danimarca, verso il vicolo cieco del nazionalismo, il partito Socialdemocratico ha insistito nell’avanzare proposte per un ulteriore restringimento delle maglie dell’immigrazione nel suo programma di governo. Alla vigilia del voto, così, svariati media occidentali avevano identificato proprio nella persistente linea dura sui migranti del principale partito di centro-sinistra danese la ragione del vantaggio assegnatogli dai sondaggi.

 

In realtà, sembra essere stata piuttosto la battaglia sulla difesa del welfare a risultare vincente e, anzi, la retorica che strizzava spesso l’occhio alla xenofobia potrebbe essere costata qualche consenso ai socialdemocratici. Il partito della probabile futura premier, Mette Frederiksen, ha infatti sfiorato il 26%, contro il 23,4% dei liberali, ma ha ottenuto appena un seggio in più rispetto alla precedente consultazione.

 

A sinistra, i progressi più significativi li ha fatti registrare invece il partito Popolare Socialista (SF), passato da 7 a 14 seggi e su posizione decisamente più tolleranti rispetto al tema dell’immigrazione. Discorso simile vale anche per il partito Social-Liberale (“Radikale”), che ha allo stesso modo raddoppiato i propri seggi, aggiudicandosene 16 grazie all’8,6% su base nazionale. Sempre a sinistra, l’Alleanza Rosso-Verde (“Enhedslisten”) ha raccolto inoltre 13 seggi, con una leggera flessione rispetto al 2015 ma diventata il secondo partito nella capitale con oltre il 16% dei consensi.

 

L’altro tema vincente, oltre al rilancio della spesa pubblica, è stato quello della lotta al cambiamento climatico. Numerose rilevazioni di opinione avevano indicato come questo argomento fosse tra i più sentiti in assoluto dagli elettori, soprattutto quelli più giovani, e i partiti di sinistra e di centro-sinistra che hanno avanzato le proposte più incisive sono stati senza dubbio premiati dai risultati definitivi.

 

A penalizzare la destra non è stata tanto la performance dei liberali, che avranno infatti ben nove seggi in più in parlamento rispetto alla loro attuale delegazione, quanto il crollo del partito Popolare Danese (DF). Il premier uscente Rasmussen, dopo la buona prestazione nelle recenti elezioni europee, aveva probabilmente anche sperato di rimanere in qualche modo al suo posto, lanciando poco prima del voto nazionale un appello ai socialdemocratici per una sorta di governo di unità nazionale, prontamente respinto però dai vincitori.

 

Il partito di estrema destra DF ha perso ben 21 seggi ed è sceso dal 21% a poco meno del 9% in termini di voti ottenuti. Pur restando il terzo partito del panorama politico danese, quello Popolare ha pagato le posizioni xenofobe ed estreme portate avanti negli ultimi quattro anni, a conferma dell’assenza di una base popolare significativa o tantomeno di massa per la destra più reazionaria. In maniera poco più che trascurabile ha influito invece sul ridimensionamento del DF l’apparizione di due nuovi partiti che ne ricalcano le orme: la Nuova Destra (“Nye Borgelige”), in grado di superare a malapena la soglia di sbarramento del 2%, e la Linea Dura (“Stram Kurs”), fermatosi all’1,8% e perciò fuori dal nuovo parlamento.

 

A chiarire quali siano stati i temi decisivi nelle elezioni di mercoledì in Danimarca è stata la stessa premier in pectore, Mette Frederiksen, nel suo discorso seguito alla diffusione dei risultati definitivi. La 41enne leader socialdemocratica ha infatti messo da parte la retorica anti-immigrazione per affermare che, “da ora in avanti, il welfare sarà la priorità numero uno”. I risultati in Danimarca seguono di poco quelli di altri due paesi scandinavi – Svezia e Finlandia – dove gli elettori hanno ugualmente premiato formazioni di centro-sinistra, segnalando sia un certo esaurimento della spinta delle destre estreme sia il desiderio di tornare a una forma di stato sociale equa ed inclusiva.

 

Che poi i partiti socialisti e socialdemocratici scandinavi siano in grado di mantenere le aspettative in questo ambito è tutto un altro discorso. Nel caso della Danimarca, così come altrove in Nordeuropa, almeno gli ultimi due decenni sono stati segnati da una costante erosione dei benefici relativamente generosi garantiti dallo stato ai propri cittadini. Un ruolo tutt’altro che trascurabile in questo processo è stato svolto proprio dai partiti di centro-sinistra.

 

Paesi che potevano vantare livelli di disuguaglianza contenuti rispetto ad altre regioni del pianeta si sono perciò anch’essi avviati sulla strada della precarizzazione del mercato del lavoro, della compressione delle pensioni, delle privatizzazioni e del taglio alle tasse per i più ricchi. In Danimarca, ad esempio, tra il 2002 e il 2012 il coefficiente di Gini, che misura le disuguaglianze di reddito, è salito da 22 a 27. Nello stesso periodo di tempo, il numero dei poveri è raddoppiato, da 22 mila a 44 mila. La differenza nell’aspettativa di vita tra i danesi più facoltosi e quelli più poveri si è inoltre allargata fino a toccare i dieci anni.

 

Allo stesso modo, tra il 1991 e il 2010 la Danimarca ha perso quasi 150 mila posti di lavoro nel settore industriale, mentre è stata accelerata la finanziarizzazione dell’economia e quasi un quarto dei nuovi posti creati sono stati in settori a bassa retribuzione. Queste dinamiche, in buona parte alla base della proliferazione di partiti xenofobi e reazionari, hanno creato tensioni sociali quasi sconosciute in precedenza, con scioperi e manifestazioni di protesta. Recentemente, ad esempio, solo un accordo in extremis aveva evitato uno sciopero del settore pubblico che avrebbe coinvolto più di 400 mila lavoratori.

 

Dopo il successo di mercoledì, la candidata premier dei socialdemocratici ha affermato che l’opzione preferita è la creazione di un governo monocolore di minoranza che dovrebbe cercare i voti in parlamento non solo tra i partiti di sinistra. Questa strategia sembra indicare da subito l’intenzione dei vincitori delle elezioni di seguire una linea moderata sul fronte economico e radicale su quello dell’immigrazione, guardando ai partiti di tutti gli orientamenti.

 

Per la gran parte dei commentatori, tuttavia, si potrebbe trattare di una semplice manovra politica in previsione delle trattative con le formazioni candidate a entrare in una coalizione di governo di centro-sinistra. Qualunque sarà la composizione del prossimo esecutivo danese, la vera sfida dovrà essere ad ogni modo quella di conciliare le pressioni popolari a favore di politiche progressiste a fronte di una classe dirigente che nel suo insieme continua a guardare verso destra.

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