di Carlo Benedetti

Cresce la tensione in tutto il Kosovo. Gli albanesi locali sanno che questa potrebbe essere la partita finale. I guerriglieri dell’Uck lubrificano le armi e si preparano. A Tirana la diplomazia si mette in moto per sponsorizzare in maniera ancora più forte l’eventuale distacco della regione serba dalla madrepatria di Belgrado. I serbi, preoccupati per l’aggressività di Podgorica, vanno in trincea e preparano il contrattacco. Le cancellerie europee temono il peggio e il contingente armato della forza internazionale del Kosovo (il Kfor, comandato dal tedesco Tenente Generale Roland Kather) toglie la sicura ai cannoni e si mette in stato d’allarme. Tutto questo perché il mediatore Onu per il Kosovo, il finlandese Martti Ahtisaari, annuncia direttamente da Belgrado che la “provincia secessionista a maggioranza albanese” potrebbe avanzare la propria candidatura per un seggio autonomo ''in seno a organizzazioni internazionali economiche''. Indicando poi lo scenario di un graduale consolidamento di un Kosovo sovrano annuncia, per il 13 febbraio, un nuovo round di consultazioni bilaterali. Si è, quindi, al giro di boa: è il momento della scelta. Le linee portanti - relative alla definizione istituzionale della regione - dovrebbero essere, comunque, quelle individuate dalle Nazioni Unite. E precisamente l’adozione di una Costituzione che prevedrà meccanismi giuridici e istituzionali per la protezione, la promozione e il rafforzamento dei diritti umani di tutte le persone del Kosovo; il diritto della regione a negoziare e sottoscrivere accordi internazionali e a richiedere l'adesione ad organizzazioni internazionali. Dovrebbero essere garantiti simboli nazionali propri e distinti nel rispetto della composizione multietnica. Il governo locale non dovrà presentare rivendicazioni e non dovrà avanzare richieste di unione con stati o parti di stati.

A garantire il rispetto di queste “decisioni” sarà la comunità internazionale che avrà un ruolo di supervisione e monitoraggio ed avrà tutti i poteri necessari per garantire un'effettiva ed efficace implementazione dell’accordo. E sempre in questo contesto gli abitanti appartenenti allo stesso gruppo nazionale (etnico, linguistico, religioso) godranno di specifici diritti. Accordi particolari – secondo l’Onu – dovrebbero riguardare l’attività della chiesa ortodossa in Kosovo che potrà godere di tutti i propri diritti, prerogative e immunità.

Quanto alla gestione interna si prevede l’adozione di leggi particolari che dovrebbero consentire al paese di mettere in atto la piena sovranità (sicurezza, intelligence, protezione civile e controllo dei confini) anche con l’istituzione di una nuova Forza di Sicurezza dotata di armi leggere. E, infine, al Kosovo sarà imposta (dalla Nato) una presenza militare internazionale destinata a seguire l’applicazione degli accordi.

Il futuro istituzionale è, quindi, alle porte? A Belgrado e a Pristina, comunque, c’è sempre chi invita alla prudenza. E il riferimento, in particolare, è a questi otto anni trascorsi dal momento in cui i bombardamenti della Nato costrinsero la Serbia a ritirare dal Kosovo tutte le sue forze di sicurezza e a smantellare le strutture statali. Ma la regione è formalmente ancora una provincia serba, pur se è in pratica sotto protettorato internazionale dalla fine di quella guerra scatenata dagli americani e dalla Nato. E il problema centrale è sempre lo stesso. Consiste nel trovare un accordo reale tra serbi e albanesi kosovari. E se non ci sarà questa intesa la situazione resterà a rischio. Anche per il fatto che le bande dell’Uck sono ancora presenti. A nulla sono valse le operazioni di facciata messe in atto dalla Nato e dalle cosiddette forze di pace. La guerriglia albanese, infatti, non è disposta a cedere.

Non è di questo parere Kather, del contingente Kfor. “La situazione in Kosovo - dice - è calma e tranquilla. Non ne sono sorpreso perché abbiamo lavorato molto per spiegare alla gente che la violenza non ha futuro. Penso che abbiano compreso il messaggio: mai più violenza in Kosovo. La gente ha compreso che nel caso di violenza il processo sullo status si bloccherebbe immediatamente. Questo non significa che non abbiamo raccolto le nostre informazioni sul campo e che non abbiamo una chiara idea di quanto avviene 24 ore su 24. Le nostre forze sono comunque in stato d'allerta e possiamo reagire rapidamente e in modo determinato. Ma non sarà necessario intervenire perché tutti hanno capito che ci troviamo nel mezzo di un processo molto democratico, serve tempo, ma è normale sia così”.

Ma la realtà kosovara non è uniforme. Si sa, ad esempio, che la “componente” albanese si sta organizzando per destabilizzare la situazione attuale. Kather non nasconde l’esistenza di gruppi estremisti che sarebbero pronti ad intervenire non fidandosi della Kfor e della comunità internazionale. Ci sono, in proposito, notizie che si riferiscono alle zone dell’Ovest dove sono stati istituiti dei check point illegali. Ma il Kfor sostiene che si tratta solo di bande legate al crimine organizzato.
Intanto a Pristina gli “albanesi” cantano vittoria. Ribadiscono che il Kosovo non tornerà più sotto la sovranità di Belgrado e che “il futuro del Paese è solo fuori dalla Serbia”.

C’è da attendere ora questo appuntamento del 13 febbraio. E sarà importante vedere come si comporteranno quei paesi che hanno sempre manifestato la loro solidarietà al popolo serbo, ribadendo l’unitarietà dello stato slavo ed evitando che la geopolitica si perda nei labirinti delle contrapposizioni. Ecco perché a Belgrado c’è chi spera in un blitz della diplomazia russa, capace di riportare l’intera “questione” nelle mani della parte slava che non ha mai accettato che Serbia e Kosovo possano essere considerati due paesi stranieri.

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