A pochi giorni dall’arresto a Londra di Julian Assange è già apparso più che evidente il rischio concreto di una possibile estradizione negli Stati Uniti del fondatore di WikiLeaks. Il dipartimento di Giustizia americano ha infatti subito ammesso e reso noto il capo di imputazione secondo il quale intenderebbe incriminare Assange. L’accusa sembra a prima vista relativamente leggera, ma nasconde in realtà un insidiosissimo complotto, orchestrato non solo a Washington e Londra, ma anche a Stoccolma, dove un caso di stupro dai chiari connotati politici riguardante lo stesso 47enne giornalista australiano potrebbe essere resuscitato a breve.

 

 

La giustizia americana aveva lanciato la propria esca subito dopo che la polizia britannica si era incaricata della cattura di Assange nell’ambasciata dell’Ecuador. Nel documento del dipartimento di Giustizia di Washington si leggeva come per Assange fosse stata preparata un’accusa basata sul suo presunto “incoraggiamento” nei confronti di Chelsea Manning a raccogliere altri documenti segreti del governo USA oltre a quelli già passati a WikiLeaks dall’ex analista dei servizi segreti militari.

 

Nello specifico, l’interlocutore di Manning, identificato dagli inquirenti americani in Assange, sarebbe colpevole di avere cercato di risalire alla password necessaria a violare i sistemi informatici governativi per poi accedere al materiale segreto da passare a WikiLeaks per la pubblicazione. I toni dell’accusa sono sorprendentemente benevoli, soprattutto nello spiegare che un’eventuale condanna in base a queste imputazioni prevede al massimo una manciata di anni di carcere e che mai in passato è stata decisa da un giudice americano la pena più alta per un sospettato nelle condizioni di Assange.

 

Prendendo per buone le intenzioni del dipartimento di Giustizia USA, sarebbero quindi escluse le accuse più gravi, formulate secondo il cosiddetto “Espionage Act” del 1917 e relative alla sottrazione e alla divulgazione di informazioni e documenti segreti che metterebbero a rischio la sicurezza dello stato. In base a esse, Assange avrebbe potuto rischiare fino all’ergastolo o la pena di morte. La mossa del governo di Washington è però una trappola partorita dalla collaborazione con Londra e, con ogni probabilità, Stoccolma. L’intenzione è in altre parole quella di prospettare un processo relativamente “soft” per Assange, in modo da superare le resistenze alla sua estradizione in Gran Bretagna e/o in Svezia. Nel momento in cui il numero uno di WikiLeaks dovesse mettere piede negli Stati Uniti, è certo che la giustizia americana finirà per incriminarlo con accuse più gravi.

 

Non essendo questa strategia particolarmente sofisticata, essa e il vasto sostegno trovato da Assange tra la popolazione comune, ma anche tra giornalisti e intellettuali non allineati, la rendono difficilmente sostenibile da parte della Gran Bretagna. La classe politica e la stampa ufficiale di questo paese sta perciò rispolverando le vecchie accuse di stupro che due donne avevano rivolto ad Assange nel 2010 dopo un suo viaggio in Svezia.

 

Il caso era apparso da subito estremamente sospetto, in primo luogo perché esploso quando iniziavano a emergere le controversie provocate dalla pubblicazione dei primi documenti riservati del governo USA. La denuncia era poi di fatto scaturita dall’insistenza della polizia di Stoccolma sulle due presunte vittime, le cittadine svedesi Anna Ardin e Sofia Wilen, le quali, tra l’altro, dopo avere avuto rapporti sessuali evidentemente consensuali con Assange se ne erano vantate con conoscenti e amici. La stessa Anna Ardin lavorava per un importante uomo politico svedese del Partito Social Democratico, considerato molto vicino all’ambasciata americana a Stoccolma.

 

Dopo avere cercato in tutti i modi l’estradizione di un Assange nel frattempo rifugiatosi all’interno dell’ambasciata ecuadoriana a Londra, la procura di Stoccolma nel 2017 aveva lasciato cadere le accuse nei suoi confronti. Ora, però, dalla Svezia arrivano ripetuti segnali di una possibile riapertura del caso, mentre numerosi politici britannici hanno iniziato a fare pressioni sulla magistratura del loro paese per favorire un’estradizione verso la Scandinavia piuttosto che oltreoceano.

 

Il risultato per Assange sarebbe in ogni caso ugualmente pericoloso, tanto che egli stesso aveva cercato la protezione del governo ecuadoriano proprio per evitare l’estradizione a Stoccolma. Secondo il trattato di estradizione tra USA e Svezia, infatti, è prevista una procedura teoricamente temporanea che consente alla giustizia di quest’ultimo paese di consegnare un accusato agli Stati Uniti, tramite una procedura accelerata, per essere processato e, solo in seguito, restituito alle autorità svedesi.

 

Un centinaio di parlamentari britannici di praticamente tutti gli schieramenti politici ha già indirizzato una lettera al ministro degli Interni conservatore, Sajid Javid, per chiedere appunto che Assange venga estradato in Svezia. Questo atto di vigliaccheria politica serve ai firmatari della lettera di lavarsi le mani della sorte di Assange, consegnandolo indirettamente a Washington tramite Stoccolma e coprendo le loro tracce con un patetico riferimento alla necessità di punire un inesistente crimine di carattere sessuale.

 

A partecipare a questa farsa sono anche media “progressisti” e politici laburisti, tra cui il Guardian e lo stesso leader del principale partito di opposizione, Jeremy Corbyn. Alcuni di essi avevano condannato apertamente l’arresto di Assange e la sua possibile estradizione negli Stati Uniti con appelli alla difesa della libertà di stampa e di espressione. In molti casi, tuttavia, la difesa del fondatore di WikiLeaks è crollata di fronte alle accuse ultra-screditate di stupro provenienti dalla Svezia e che Assange dovrebbe ora fronteggiare per assolvere a un distorto principio di giustizia.

 

La trappola in cui è finito Julian Assange non avrebbe potuto in ogni caso scattare senza il contributo decisivo e vergognoso del presidente ecuadoriano Lenin Moreno. La sua decisione di revocare l’asilo che ha portato all’arresto di giovedì scorso è la conseguenza di un accordo con Washington, a sua volta motivato dalle pressioni derivanti da una crisi politica ed economica sempre più profonda che sta attraversando il paese latinoamericano.

 

Moreno è in primo luogo invischiato in uno scandalo esploso dopo la pubblicazione di corrispondenza privata dello stesso presidente e di membri del suo entourage che testimonierebbero di crimini come corruzione e riciclaggio di denaro. Questi documenti erano stati diffusi da WikiLeaks dopo essere stati pubblicati inizialmente da altre testate, ma Moreno si era scagliato contro questa organizzazione e lo stesso Assange, accusati di avere violato la sua privacy e quella dei suoi famigliari.

 

Il caso, basato sui cosiddetti “INA papers”, dal nome della società al centro della vicenda, ha a che fare con alcuni conti “off-shore” a Panama sui cui sarebbero transitati milioni di dollari provenienti dalla compagnia di costruzioni cinese Sinohydro, beneficiaria dell’appalto per due centrali idroelettriche in Ecuador. Il denaro sarebbe poi stato utilizzato per l’acquisto di case e svariati beni di lusso tra la Spagna e la Svizzera per la stessa famiglia del presidente Moreno. Sullo scandalo hanno avviato indagini sia la procura generale ecuadoriana sia il parlamento di Quito.

 

In parte, lo sfratto di Assange dall’ambasciata londinese è dunque una vendetta per lo scandalo degli “INA papers”. Più in generale, la decisione su Assange di Moreno è però da collegare anche alla volontà del presidente di reintegrare il suo paese nell’orbita di Washington. L’aggravamento della situazione di Assange era andata infatti di pari passo con il consolidamento dei rapporti tra Ecuador e Stati Uniti, ratificato da svariate iniziative altamente simboliche.

 

Tra di esse vanno ricordate almeno la visita a Quito nel giugno del 2018 del vice-presidente USA Mike Pence, l’apertura in Ecuador di un ufficio americano dedicato alla “cooperazione sulla sicurezza”, il sostegno dell’amministrazione Moreno al fantoccio Juan Guaido in Venezuela, l’uscita dall’UNASUR, l’organizzazione fondata nel 2008 che includeva i governi di orientamento progressista dell’America Latina, e la partecipazione al nuovo soggetto transnazionale sudamericano reazionario promosso da Washington (PROSUR).

 

In concomitanza con il sequestro di Assange da parte della polizia di Londra, l’Ecuador di Lenin Moreno si è visto infine approvare anche un prestito da 4,2 miliardi di dollari dal Fondo Monetario Internazionale, con annesse condizioni di stampo ultra-liberista. Come spiegano tutti i manuali dell’ingerenza americana negli affari di paesi stranieri, il denaro e l’assistenza di organi internazionali come il FMI, sui cui gli Stati Uniti esercitano un’influenza decisiva, sono regolarmente usati per pilotare le scelte strategiche di questi stessi paesi.

 

Nel caso dell’Ecuador, Washington ha trovato così la piena disponibilità del presidente Moreno a seguire gli ordini dell’impero e a sacrificare, assieme a Julian Assange e alla libertà di stampa, quel che resta della sovranità e della credibilità internazionale del paese sudamericano.

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