di Daniele John Angrisani

Dinanzi ad un Paese e ad un Congresso nettamente ostili rispetto alla sua politica, l'anatra decapitata, George W. Bush, ha pronunciato il suo settimo e penultimo discorso sullo Stato dell'Unione. Mai prima d'ora un presidente con un così basso indice di popolarità (secondo l'ultimo sondaggio della CBS, addirittura il 28%) si è infatti dovuto presentare dinanzi alla Camera ed al Senato in riunione congiunta, per questo appuntamento annuale della tradizione presidenziale americana. In questo contesto, il presidente ha cercato, dal suo punto di vista, di fare del suo meglio per convincere gli americani a dare una chance ulteriore al suo piano sull'Iraq, che prevede l'invio di ulteriori nuove truppe in questo Paese mediorientale. Ma l'impressione di tutti è che a nulla siano servite le sue parole, come è stato dimostrato anche dal voto del Senato che il 24 gennaio ha deciso di approvare una risoluzione "non vincolante" per bocciare il piano presidenziale, con il voto importantissimo anche di un senatore repubblicano di lunga data come Chuck Hagel, uno dei tanti aspiranti repubblicana alla carica di successore di Bush. La maggior parte degli osservatori considera il discorso dell'altra sera come niente altro che il "canto del cigno" di una presidenza che secondo i sondaggi di opinione si affretta ad essere considerata la peggiore del dopoguerra. Il progresso inesorabile della guerra civile fratricida in Iraq, la morte continua dei soldati americani mandati in zona di nessuno senza alcuna reale speranza di risoluzione del conflitto, l'assoluta impotenza degli americani dinanzi alla spirale di violenza che sta insanguinando il Paese e distruggendo ciò che resta della poca reputazione rimasta internazionalmente per il Paese, ha finalmente svegliato l'opinione pubblica americana che per troppi anni è stata come "in coma", dopo la sberla degli attentati terroristici dell'11 settembre. Dopo anni di rinunce più o meno volontarie alle proprie libertà personali in cambio della tanta agognata sicurezza, benevolenti approvazioni di orrori quali le torture di Abu Ghraib e di Guantanamo, ora gli americani sembrano finalmente essersi resi conto del disastro verso cui li sta portando questa Amministrazione presidenziale e, come già prima nella storia, dimostrano tutto il loro disprezzo nei confronti del presidente dimezzato.

Lo stato d'animo sopra descritto è chiarito bene dalle parole del neosenatore democratico, Jim Webb, padre di un soldato americano sotto le armi in Iraq, che è stato investito dal suo partito come portavoce della risposta ufficiale democratica al discorso dello Stato dell'Unione: "Il presidente Bush ci ha portato in questa guerra senza alcuna reale necessità. Non ha seguito gli avvertimenti dei consiglieri di sicurezza nazionale, del capo dello stato maggiore [...] e di molti altri consiglieri presidenziali di grande integrità morale e lunga esperienza nella conduzione degli affari di sicurezza nazionale. Noi siamo ora, come nazione, tenuti ostaggio del prevedibile disastro che è seguito alle scelte del presidente. I costi della guerra in Iraq sono catastrofici. Dal punto di vista finanziario, ma anche dal punto di vista della nostra reputazione nel mondo. Per non parlare delle opportunità perdute per sconfiggere le forze del terrorismo internazionale. [...] La maggioranza della nostra nazione non appoggia più il modo in cui questa guerra viene condotta; e la stessa cosa vale per la maggioranza dei nostri concittadini sotto le armi. Quello che abbiamo bisogno è una reale nuova direzione. Non un passo indietro nella guerra contro il terrorismo e neppure un ritiro precipitoso che ignori la possibilità di ulteriore caos in Iraq. Ma un immediato cambiamento della nostra politica a favore di una diplomazia su basi regionali, una politica che serva per portare via i nostri soldati dalle strade delle città irachene, ed una formula che permetta alle nostre forze di lasciare in breve tempo l'Iraq".

Dato il voto del Senato di ieri sembra che almeno stavolta i democratici stiano facendo seguire le azioni alle belle parole. Ma trattandosi di niente altro che una opinione non vincolante, è indubbio che il problema reale si porrà quando il Congresso dovrà decidere o meno se finanziare l'aumento delle truppe in Iraq. Da questo punto di vista i democratici sono decisamente in difficoltà, visto che nessuno, a due anni dalle presidenziali che potrebbero vedere l'ascesa della prima donna americana alla Casa Bianca, se la sentirà di lasciare le truppe in guerra senza finanziamenti e quindi senza le necessarie armi per far fronte ai nemici in un teatro di guerra così difficile come quello iracheno. Sebbene i democratici tentino in tutti i modi di far passare questa guerra come la "guerra di Bush" e non assumersi alcuna responsabilità futura, sarà per loro molto difficile continuare per molto su questa strada alla Ponzio Pilato, visto che la principale motivazione per cui sono stati eletti a novembre è stata proprio la ricerca di una conclusione il prima possibile al disastro iracheno. E' proprio su questo infatti che si giocherà il futuro politico del partito democratico e dei suoi candidati alla Casa Bianca nel 2008.

La questione è molto semplice, persino nella sua assoluta complessità. Hillary Clinton e Barack Obama, i due principali candidati democratici alla Casa Bianca, sono avvertiti. I sondaggi al momento sono molto favorevoli nei loro confronti, ma dopo anni di delusioni e tradimenti della fiducia popolare da parte dell'elite politica americana, l'opinione pubblica americana potrebbe non perdonare loro qualsiasi minima incertezza sull'unica vera questione che sta così tanto a cuore agli americani oggi, la guerra in Iraq. La chiave per accedere allo Studio Ovale, al numero 1600 di Pennsylvania Avenue, aspetta ora solo da questo. Così come da questo dipende il futuro politico di un partito che per ora ha visto la propria rinascita dipendere solo dagli errori dei propri avversari. Non certo il migliore viatico per chi dovrà essere capace di restituire, agli occhi degli elettori americani, dignità e rispettabilità agli Stati Uniti nel mondo.

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