La sorte tuttora misteriosa del giornalista saudita Jamal Khashoggi, sparito il 2 ottobre scorso nel consolato del suo paese a Istanbul, rischia di incrinare seriamente i rapporti già tesi tra Riyadh e Ankara, con possibili riflessi negativi anche sull’alleanza apparentemente ancora solidissima tra la stessa monarchia sunnita e il governo americano.

 

Sulla vicenda è intervenuto nei giorni scorsi il presidente turco Erdogan per chiedere al regime saudita di chiarire i movimenti di Khashoggi e dimostrare quanto sostenuto a Riyadh, cioè che il noto giornalista sarebbe uscito liberamente dall’edificio che ospita il consolato.

 

Martedì le autorità saudite hanno garantito alle forze di polizia turche la possibilità di entrare nel consolato di Istanbul e verificare l’assenza di Khashoggi. Questa concessione sembrerebbe confermare che quest’ultimo non si trova più nella struttura, anche se potrebbe averla lasciata non di sua spontanea volontà o addirittura dopo essere stato assassinato al suo interno.

 

 

Fonti delle forze di sicurezza turche ritengono che Khashoggi sia stato torturato e ucciso una volta entrato nel consolato saudita. Il suo corpo sarebbe poi stato smembrato, trasportato fuori dall’edificio e riportato in Arabia Saudita da 15 uomini arrivati in Turchia lo stesso 2 ottobre e visti uscire dal consolato di Istanbul circa un’ora dopo che il giornalista vi era entrato.

 

Questa ricostruzione è stata ritenuta improbabile da molti commentatori. Khashoggi, tuttavia, aveva ragione di temere per la sua incolumità nel recarsi presso il consolato del suo paese, dove intendeva richiedere un documento per sposare la sua compagna di nazionalità turca. Conoscenti e famigliari lo avevano sconsigliato dal prendere questo rischio e lo stesso giornalista saudita aveva raccomandato alla sua futura sposa di avvertire un consigliere di Erdogan se non fosse uscito dal consolato di lì a qualche ora.

 

Khashoggi viene spesso definito in questi giorni dalla stampa occidentale come una sorta di dissidente saudita, se non addirittura un martire o un eroe della libertà di stampa in una dittatura oscurantista. Il 59enne giornalista è invece profondamente legato al regime wahhabita e vive in esilio volontario negli Stati Uniti solo da qualche mese, dopo cioè che l’erede al trono, principe Mohammed bin Salman, aveva avviato una purga contro fazioni rivali interne alla famiglia reale con la scusa della lotta alla corruzione dilagante.

 

Di famiglia molto ricca, Khashoggi ha ricoperto l’incarico di consulente per vari esponenti del regime, tra cui il principe Turki al-Faisal, già ambasciatore saudita negli USA e in Gran Bretagna. Le sue posizioni in patria non erano per nulla critiche dei metodi brutali del regime, visto che, tra l’altro, aveva difeso pubblicamente la guerra criminale condotta da Riyadh in Yemen o le atrocità commesse dallo Stato Islamico (ISIS) contro i militari dell’esercito governativo siriano.

 

Khashoggi faceva anche da punto di riferimento per molti giornalisti “mainstream” occidentali e, dopo la sua fuga da Riyadh, aveva ottenuto uno spazio sul Washington Post, da dove con alcuni editoriali stava rivolgendo critiche piuttosto moderate al regime e all’erede al trono. Forse solo nel suo ultimo articolo era ricorso a toni più duri nel condannare l’intervento in Yemen, anche se esclusivamente a causa del problema di immagine che deriva da questo massacro per il regime saudita.

 

Se la tesi della Turchia dovesse trovare riscontro, l’assassinio di Jamal Khashoggi, oltre a mostrare ancora una volta la natura sanguinaria della monarchia saudita, rivelerebbe anche l’estrema fragilità di quest’ultima e il livello di disperazione raggiunto per reprimere dissensi e divisioni interne. Secondo alcuni, invece, Khashoggi potrebbe essere stato punito con la vita perché in possesso di documenti scottanti portati con sé dopo avere lasciato l’Arabia Saudita.

 

La vicenda non è comunque limitata alla sorte Khashoggi né, tantomeno, alla difesa del lavoro o della stessa incolumità dei giornalisti in paesi autoritari o dittatoriali. Le accuse di Erdogan al regime saudita sono d’altra parte da inquadrare nella situazione della Turchia, paese che sotto l’attuale governo islamista fa registrare il numero più alto di giornalisti in carcere di tutto il mondo.

 

A intrecciarsi con quanto accaduto a Khashoggi è quindi lo stato delle relazioni tra la Turchia e l’Arabia Saudita e tra quest’ultima e gli Stati Uniti. Per quanto riguarda Erdogan, è facile pensare che il presidente turco abbia avuto in mente le tensioni con Riyadh, aumentate negli ultimi tempi fondamentalmente per due ragioni. La prima è la guerra diplomatica ed economica del regime saudita contro il Qatar, alleato di Ankara anche e soprattutto per la protezione e il sostegno garantito dall’emirato del Golfo Persico all’organizzazione panaraba dei Fratelli Musulmani, a cui fa riferimento l’AKP di Erdogan.

 

L’altra è da collegare ai rapporti tra Turchia e Iran. Nonostante le pressioni di Riyadh e Washington, Ankara non ha intenzione di rompere con la Repubblica Islamica, sia per la necessità di continuare a importare petrolio da questo paese sia per la collaborazione nel processo diplomatico in atto sulla Siria, a cui partecipa anche la Russia. I toni di Erdogan sulla vicenda Khashoggi sono comunque ancora cauti, a conferma del pochissimo interesse a rompere con l’Arabia Saudita, la cui importanza per un’economia turca in affanno è difficile da sopravvalutare.

 

Vista la popolarità del giornalista saudita tra i colleghi americani, era inevitabile che la sua sparizione suscitasse accese reazioni dall’altra parte dell’Atlantico. In particolare proprio il Washington Post ha proposto una serie di editoriali che chiedono di fare luce su Khashoggi e invocano sanzioni contro l’Arabia Saudita, mentre un coro crescente di senatori di entrambi gli schieramenti ha messo in guardia il regime, invitando a fare chiarezza sul giornalista. Il presidente Trump, da parte sua, ha finora tenuto un basso profilo sulla vicenda, sia pure manifestando un certo malumore.

 

Queste reazioni la dicono lunga sugli scrupoli democratici della classe dirigente americana, in fase di mobilitazione per il presunto assassinio di un giornalista già legato alla monarchia saudita ma di fatto disinteressata e in apparenza impotente di fronte alla strage in corso in Yemen per mano delle forze di Riyadh o alla brutale repressione interna di ogni forma di opposizione al regime.

 

L’editorialista del New York Times Thomas Friedman, finora acceso sostenitore dello zelo “riformatore” del principe Mohammed bin Salman, ha riconosciuto apertamente la maggiore importanza dei rapporti con un regime criminale rispetto alla vita di decine di migliaia di civili. Friedman ha scritto infatti che, se Khashoggi fosse stato realmente ucciso nel consolato saudita di Istanbul, questo fatto sarebbe più grave anche della guerra di aggressione in Yemen, dove sono morte più di 15 mila persone e altre centinaia di migliaia sono a rischio carestia, perché in sostanza incrinerebbe la credibilità dell’erede al trono.

 

Alla luce del ruolo fondamentale ricoperto dall’Arabia Saudita nei piani strategici degli Stati Uniti in Medio Oriente, assieme al peso dei “petrodollari” nel sostenere ciò che resta del primato economico di Washington su scala globale, è comunque improbabile che la fine di Jamal Khashoggi possa avere effetti irreparabili sull’alleanza tra i due paesi.

 

Tuttavia, il caos suscitato dalla sparizione del giornalista saudita sembra indicare l’esistenza di divisioni e contrasti sia a Riyadh sia a Washington sul futuro delle relazioni bilaterali. In un complicato schema di intrighi e sospetti, in cui va inserita anche la possibile preferenza americana per una successione diversa al trono saudita rispetto a quella stabilita a favore del giovane Mohammed bin Salman, la Casa Bianca si ritrova con una nuova patata bollente in un momento in cui si prospettano decisioni delicate sui rapporti con la monarchia saudita.

 

In altre parole, dietro l’apparente alleanza di ferro promossa dall’amministrazione Trump sembrano nascondersi tensioni crescenti che il caso Khashoggi rischia di aggravare. Solo pochi giorni fa, ad esempio, Trump si era lamentato pubblicamente del fatto che Riyadh goda della protezione americana senza dare nulla in cambio, aggiungendo che la casa regnante “non sopravvivrebbe due settimane senza il nostro appoggio militare”.

 

L’intervento nella polemica su Khashoggi di giornalisti americani notoriamente legati all’intelligence USA, come l’editorialista del Washington Post David Ignatius, suggerisce inoltre l’esistenza di una precisa agenda di determinate sezioni dell’establishment di Washington. Il governo americano è poi sempre meno entusiasta dello scarso contributo dell’Arabia Saudita e dell’OPEC, su cui Riyadh ha una profonda influenza, nell’aumentare la produzione di greggio per contenere l’impennata delle quotazioni causate dall’imminente ritorno in vigore delle sanzioni contro l’Iran.

 

Da considerare con estrema attenzione è infine anche il costante avvicinamento tra Arabia Saudita e Mosca, sottolineato, tra l’altro, da svariati accordi in ambito energetico, dalle intese al di fuori dell’OPEC sul livello di petrolio da immettere sul mercato e dall’interesse, poi rientrato dietro pressioni USA, del regime sunnita per l’acquisto del sofisticato sistema antimissilistico S-400 di produzione russa.

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