di Bianca Cerri

L’ingegner Raggett è stato categorico: se si deve fare una barriera sul Golden Gate per impedire ai suicidi di saltare giù dovrà essere solida perché con la struttura dei ponti non si scherza. Ma gli amministratori di San Francisco temono che le modifiche possano influire sull’aspetto estetico dell’imponente struttura di ferro che attraversa la baia. La storia è tutt’altro che nuova, sono già circa 70 anni che ingegneri civili e autorità municipali di San Francisco discutono sull’eventualità di costruire una barriera che renda impossibili i suicidi ma se ai primi interessa soprattutto la sicurezza, i secondi si ribellano all’idea di inserire elementi “non accettabili esteticamente”. Il Golden Gate ha sempre attratto i suicidi come una calamita ma la soluzione non è stata ancora trovata. Il primo progetto di barriera fu presentato dagli architetti Ashen&Allen nel 1970 ma il sindaco di allora non lo approvò e il ponte rimase com’era. In Canada, lo stesso problema è stato risolto in poche ore, in California ci vorranno probabilmente secoli. Per Eve Mayer, presidente dell’Associazione per la Prevenzione del Suicidio di San Francisco se la barriera fosse stata approvata si sarebbero potute salvare molte vite umane. Ma c’è anche chi insinua che non sia solo l’estetica a preoccupare le autorità. Il vero problema sarebbero i costi: spendere oltre venti milioni di dollari per una manica di disperati che pensano di trovare sollievo alla loro angoscia gettandosi nelle acque della baia potrebbe apparire come uno spreco di denaro pubblico.

Qualche giornale della California accusa sindaco ed assessori di provare solo indifferenza nei confronti del problema. Secondo gli psichiatri invece si tratterebbe di una specie di tabù nei confronti del suicidio, ancora percepito come forma di ingratitudine estrema e dunque indegno dell’umana pietà. Nel luglio del 2006, le autorità non si sono fatte neppure vedere alla marcia organizzata in memoria delle persone che si sono tolte la vita gettandosi dal Golden Gate, alla quale hanno partecipato ventimila persone.

Non è facile capire le vere ragioni che si nascondono dietro una decisione tanto estrema come il suicidio ma l’ostinazione di sindaco e assessori nel voler salvaguardare l’estetica del Golden Gate anteponendola alla sicurezza è ancora più incomprensibile. Per gli psichiatri, la mancanza di una barriera protettiva equivale a mettere una pistola carica in mano ad un bambino ed è vergognoso che le autorità facciano finta che il problema non esista. Per la verità, la cosa non sembra interessare troppo neppure i cittadini comuni, che evitano persino di parlarne.

Il Golden Gate fu inaugurato nel 1937 e la sua nascita venne annunciata come un grande avvenimento. Durante il discorso inaugurale, il sindaco parlò del ponte sulla baia come di un simbolo della capacità umana di far convivere assieme perfezione tecnologica e ambiente naturale. Qualcuno rimase un pò perplesso vedendo l’esile guarda-rail che anche un ottantenne sarebbe stato facilmente in grado di scavalcare, tanto è vero che molti l’hanno fatto. Dieci giorni dopo l’inaugurazione il primo suicidio. . Da allora, altre milleduecentoventuno persone sono morte gettandosi nelle acque sottostanti. Tra loro c’erano anziani pastori luterani, casalinghe, omosessuali in conflitto con la loro condizione, miliardari, studenti e tante altre categorie umane. Alcuni avevano sofferto per la fine di un amore, altri erano stressati dal lavoro, altri ancora volevano fuggire dalla legge. Forse avrebbero potuto essere salvate perché, sempre secondo gli psichiatri, difficilmente sarebbero andate altrove per compiere un gesto tanto drammatico.

Tra le 515 persone che hanno avuto la fortuna di essere fermate prima del salto fatale, il 90% non ha mai più provato ad uccidersi e lo stesso è avvenuto con i pochissimi recuperati nell’acqua prima che fossero risucchiati dalla corrente.

A San Francisco, che a partire dagli anni ’60 è stata considerata la città dell’amore per antonomasia, nessuno ama rinvangare le tragiche storie legate al Golden Gate. A meno che si tratti di business. Esistono agenzie funebri che hanno stipulato contratti molto lucrativi con l’amministrazione comunale per il recupero delle salme dall’acqua. Nelle cartolerie del centro non è raro trovare biglietti d’auguri con frasi che nelle intenzioni dell’autore avrebbero dovuto risultare spiritose che alludono ironicamente allo stato mentale dei suicidi. Una sala scommesse di San Francisco accetta puntate su chi sarà il prossimo a saltare giù (uomo-donna, giovane-vecchio, ecc.).

La scrittrice Danielle Steel, il cui figlio Nick si suicidò anni fa, si è rivolta alle autorità per chiedere quanto tempo ci vorrà ancora per avere la barriera. In un’intervista al San Francisco Chronicle, Steel ha detto di considerare ridicola la preoccupazione per l’estetica del ponte, tanto più che il problema non è mai entrato in ballo con i caschi e con le cinture di sicurezza. Gli psichiatri ritengono invece che le autorità si nascondano dietro la scusa dell’estetica per criminalizzare le persone che si tolgono la vita. Il problema ricade così sulle spalle degli agenti dell’Highway Patrol di San Francisco e sugli operai addetti alla manutenzione del Golden Gate. I salvataggi avvengono così in modo assolutamente casuale, sempre ammesso che ci sia il tempo per fermare un suicida prima del salto. L’onere di controllare che si sia trattato di una decisione volontaria e il controllo degli abiti delle vittime rientra invece nei compiti della Guardia Costiera.

Per le famiglie degli scomparsi, la barriera sarebbe la soluzione migliore. Maria Martinez, madre di un campione di wrestling il cui corpo non è mai stato ritrovato, spera che nessuna donna debba mai sostenere la sua stessa angoscia. Anche per la madre della quattordicenne Marissa Imrie la vita non è stata più la stessa dopo la perdita della figlia. Il tempo che passa non ha ancora mitigato il suo dolore. Renée Imsrie Milligan, 48 anni, ha un’altra bambina, Olivia, di cinque anni. Solo quando Marissa si è uccisa Renée ha capito che dietro la facciata di ragazzina curata e felice, c’era una terribile solitudine adolescenziale. La scorsa estate, il marito Ernest, ancora traumatizzato dalla perdita della figlia e incapace di sopportare oltre il dolore, si è ucciso. Da una finestra di casa Imrie si vede il Golden Gate. “Le autorità non vogliono mettere una barriera per non rovinarne l’estetica”, commenta Renèe, “ma per chi ha perso un figlio lassù il Golden Gate è solo un simbolo di morte”.




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