La riforma del fisco americano, approvata lo scorso anno dal Congresso di Washington su indicazione dell’amministrazione Trump, avrebbe dovuto ufficialmente generare una valanga di investimenti e nuove assunzioni da parte delle grandi aziende favorite dal sostanzioso taglio al loro carico fiscale. In realtà, com’era ampiamente previsto al di là della propaganda, la nuova legge ha prodotto da subito un’impennata dei profitti che le corporations americane stanno utilizzando in primo luogo per remunerare i propri dirigenti e azionisti.

 

 

Il caso di Apple è finora il più emblematico delle dinamiche prodotte dalla riforma e, più in generale, delle politiche di classe del governo degli Stati Uniti. I giornali americani hanno scritto in questi giorni che il gigante di Cupertino ha accelerato nei primi mesi del 2018 il programma di riacquisto di proprie azioni grazie proprio alle disposizioni previste dalla nuova legislazione fiscale.

 

Nel primo trimestre dell’anno, cioè, Apple ha regalato ai detentori delle proprie azioni 23,5 miliardi di dollari, mentre ha pagato dividendi per altri 3,2 miliardi. La prima operazione anticipa un piano di riacquisto che nei prossimi mesi toccherà addirittura i 100 miliardi e la seconda vedrà un aumento pari almeno al 16%.

Il riacquisto di proprie azioni sul mercato, o “buyback”, da parte di una determinata azienda serve in sostanza a distribuire ricchezza agli azionisti, inclusi i manager della stessa compagnia, e, con la conseguente riduzione del numero di azioni presenti sul mercato, a far salire il valore di quelle rimanenti.

 

Per quanto riguarda Apple, l’operazione sfrutta in particolare la possibilità offerta dalla riforma di Trump per riportare negli Stati Uniti i profitti “parcheggiati” all’estero dalle multinazionali, pagando un’aliquota agevolata di appena il 15,5%, ovvero meno della metà del 35% previsto in precedenza.

 

Apple dispone di un mare di liquidità al di fuori degli USA che supera i 250 miliardi di dollari, in larga misura accumulati grazie al ricorso a lavoratori super-sfruttati in alcuni paesi asiatici, alla manipolazione di regimi fiscali favorevoli e ai diritti sulla proprietà intellettuale della tecnologia usata per i propri prodotti.

Come le altre corporations americane, Apple beneficia anche della riduzione senza precedenti negli USA dell’aliquota base per queste entità, portata dal 35% nominale al 21%.

 

Questo taglio drastico ha un impatto concreto anche superiore, visto che la pressione fiscale sulle grandi aziende americane era già quasi sempre più bassa del livello ufficiale, grazie allo sfruttamento di scappatoie legali e crediti d’imposta. Apple, ad esempio, sui soli ricavi in America, prima della recente riforma pagava appena il 26% di tasse, cioè 9 punti in meno dell’aliquota nominale.

 

Il programma di riacquisto di azioni di Apple serve dunque a distribuire ricchezza, sostanzialmente sottratta alla società, a una ristretta cerchia di super-ricchi e speculatori. I primi cinque detentori individuali di azioni della compagnia californiana sono i suoi stessi top manager, incluso l’amministratore delegato Tim Cook. Tutti i principali azionisti istituzionali sono invece grandi fondi di investimento, come BlackRock, Vanguard Group e State Street Global.

 

I 23,5 miliardi distribuiti ai suoi azionisti fanno parte di un piano di “buyback” da 210 miliardi iniziato da Apple nel 2012 e che, grazie ai benefici della riforma fiscale di Trump, nel marzo scorso si è concluso circa nove mesi prima del previsto. La prossima tranche, come già anticipato, sarà ora da 100 miliardi e al momento i vertici della compagnia non hanno dato indicazioni sulla possibile chiusura del nuovo programma di riacquisto.

 

Sulla stessa linea di Apple, anche se con importi inferiori, si stanno muovendo molte aziende. Tra le altre, Facebook ha annunciato di recente il riacquisto di azioni per 9 miliardi, la compagnia biofarmaceutica AbbVie per 7,5 miliardi e per altri 12 quella delle telecomunicazioni Broadcom.

 

Per dare l’idea della quantità di ricchezza sprecata con queste operazioni, i circa 100 miliardi di dollari che Apple consegnerà nei prossimi mesi ai propri azionisti corrispondono al PIL annuo di un paese di quasi 17 milioni di abitanti come l’Ecuador o superano abbondantemente quello del Kenya (48 milioni di abitanti). Secondo alcune stime, inoltre, questa cifra basterebbe quasi a risolvere globalmente il problema della fame per un intero anno.

 

Alcune pubblicazioni indipendenti hanno poi messo in relazione i 100 miliardi di riacquisto di azioni Apple con le voci del bilancio federale americano. L’importo coprirebbe ad esempio tutto il budget annuale del dipartimento dell’Educazione o quanto il governo spende in due anni per sostenere l’acquisto di cibo di 40 milioni di famiglie a basso reddito.

 

Simili accostamenti sono oggi tanto più opportuni alla luce delle iniziative già adottate e in fase di studio, da parte del Congresso USA e dell’amministrazione Trump, per ridimensionare drasticamente il welfare americano, imponendo condizioni sempre più stringenti per l’accesso ai rimanenti programmi sociali.

 

La pratica del “buyback” è in ogni caso generalizzata alle grandi compagnie quotate in borsa, non solo negli Stati Uniti. Negli ultimi anni, essa aveva già fatto segnare livelli da record grazie al cosiddetto programma di “quantitative easing” della Banca Centrale negli Stati Uniti e in altri paesi, anch’esso teoricamente destinato a stimolare l’economia in generale.

 

Grazie alla riforma fiscale dello scorso anno, le corporations americane si stanno ora gettando come avvoltoi sui profitti liberati dal taglio alle tasse. Un’indagine citata dalla Reuters ha rilevato come nel solo mese di aprile le compagnie d’oltreoceano abbiano annunciato piani di riacquisto di proprie azioni per un totale di 50,4 miliardi di dollari contro i 38 miliardi dell’anno precedente. Riferito al primo trimestre del 2018, questo dato sale alla cifra stratosferica di 242 miliardi.

 

Per investimenti, aumenti di stipendi e assunzioni restano invece le briciole di quanto promesso dalla Casa Bianca. Sempre nel caso di Apple, sarebbero 20 mila i nuovi posti di lavoro previsti nei prossimi cinque anni, con un costo totale di circa 5 miliardi di dollari. Anche se questo numero dovesse concretizzarsi, la portata dell’investimento sarebbe comunque decisamente trascurabile rispetto al denaro piovuto sulla compagnia grazie alla riforma fiscale.

 

Quella del “buyback” resta dunque la pratica preferita dalle corporations americane per impiegare la liquidità a disposizione. Nonostante questa massiccia quantità di denaro, non solo la maggior parte di esse ha deciso in primo luogo il riacquisto delle proprie azioni, ma in alcuni casi intende procedere con precedenti programmi di “ristrutturazione” e tagli del personale.

 

In entrambi i sensi si sta muovendo ad esempio la notissima fabbrica di motociclette Harley Davidson, la quale, dopo avere risparmiato 24 milioni di dollari in tasse solo tra gennaio e marzo, entro il mese di luglio perfezionerà un piano di quasi 300 licenziamenti, per poi chiudere il prossimo anno il proprio impianto di Kansas City, dove lavorano oggi circa 800 dipendenti.

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