di Michele Paris

Con una nuova iniziativa che minaccia di aggravare la crisi nella penisola di Corea, il regime di Pyongyang nella mattinata di martedì ha testato un nuovo missile balistico che ha insolitamente sorvolato il Giappone settentrionale prima di precipitare in mare. La mossa di Kim Jong-un è giunta dopo che le posizioni degli Stati Uniti sulla Corea del Nord erano sembrate ammorbidirsi in maniera cauta, nonostante un lancio di altri tre missili a corto raggio registrato lo scorso fine settimana.

La risposta al test di martedì da parte dei governi coinvolti nella vicenda coreana ha dato l’impressione di essere in presenza di un episodio che potrebbe accelerare gli eventi, sia in direzione di un pericoloso conflitto armato sia, paradossalmente, verso l’apertura di una qualche forma di dialogo.

I segnali lanciato da Seoul, Tokyo e Washington hanno fatto intendere che la prima ipotesi appaia come quella più probabile, anche se negli ultimi mesi non erano ugualmente mancate minacce contro la Corea del Nord poi concretizzatesi solo in maniera parziale e sotto forma di sanzioni punitive.

Secondo la stampa internazionale, il missile nordcoreano partito martedì dalla capitale Pyongyang sarebbe un Hwasong-12 a raggio intermedio, sviluppato solo recentemente dal regime. Con questo genere di ordigno Kim aveva minacciato a inizio agosto di voler colpire il territorio americano di Guam, nell’Oceano Pacifico, dopo che il presidente USA Trump aveva promesso “fuoco e furia” in caso di sfida agli Stati Uniti.

Martedì, però, le parole più dure sono arrivate per prime dai governi di Giappone e Corea del Sud. Anche per via del fuso orario, Trump è intervenuto svariate ore più tardi, ribadendo che sul tavolo rimangono “tutte le opzioni” per far fronte alla Corea del Nord. Il premier nipponico, Shinzo Abe, ha parlato di “minaccia senza precedenti” e chiesto una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per “intensificare ulteriormente le pressioni sulla Corea del Nord”.

Abe avrebbe parlato telefonicamente anche con Trump, il quale, secondo il capo del governo di Tokyo, ha assicurato che Washington è “al cento per cento a fianco del Giappone”, la cui sicurezza rimane una priorità assoluta degli Stati Uniti. La reazione al limite dell’isteria di Abe risponde in buona parte all’agenda domestica di un governo che da tempo sta cercando di imprimere una svolta militarista al Giappone a fronte di una consistente resistenza popolare. Gli stessi vertici militari giapponesi avevano peraltro confermato precocemente che il lancio del missile nordcoreano non rappresentava alcuna minaccia reale per il paese.

Il lancio di missili nordcoreani che sorvolano il territorio giapponese è un evento relativamente raro e, prima di martedì, era accaduto solo in una manciata di occasioni, tra cui nel 1998 e nel 2009. In entrambi questi ultimi casi, Pyongyang aveva sostenuto di avere inviato satelliti in orbita, anche se, almeno per quanto riguarda il lancio del 2009, USA e Giappone avevano parlato invece di missili balistici.

Anche il governo di centro-sinistra di Seoul del presidente Moon Jae-in non ha perso tempo a condannare duramente il vicino settentrionale malgrado le aperture che hanno talvolta caratterizzato la primissima parte del mandato di quest’ultimo. La rapida presa di posizione sudcoreana non comporta necessariamente un’inversione di rotta sulla ricerca di una soluzione diplomatica alla crisi, ma potrebbe corrispondere a una volontà di resistere al tentativo di Pyongyang di spingere la situazione fino al punto di rottura prima di eventuali negoziati, in moda da ritenere di poter trattare da una posizione più vantaggiosa.

Il ministero degli Esteri sudcoreano ha comunque sottolineato come la risposta alla “provocazione” nordcoreana avverrà nel quadro della “solida” alleanza con gli USA. Già martedì, Moon ha ordinato alle forze armate del suo paese di dare una “dimostrazione di forza” attraverso un’esercitazione militare che ha incluso il lancio di bombe su un bersaglio non lontano dal confine tra le due Coree. La decisione del presidente sudcoreano ha seguito una riunione del Consiglio per la Sicurezza Nazionale a Seoul, indetta appunto per discutere le contromisure da adottare dopo il lancio del missile da Pyongyang.

Non solo, l’ufficio presidenziale ha anche annunciato che Corea del Sud e Stati Uniti hanno concordato il dispiegamento di ulteriori “asset strategici” nella penisola in risposta all’iniziativa di Kim. Pur senza ulteriori dettagli, la dichiarazione sembra riferirsi all’impiego di nuovi armamenti americani in Corea del Sud, in un possibile sviluppo che minaccerebbe altre tensioni anche con Cina e Russia.

Proprio da Pechino è arrivata invece martedì una dichiarazione ufficiale che, da un lato, ha riconosciuto come le tensioni in Corea abbiano raggiunto un “punto critico”, mentre dall’altro ha proposto un rilancio dell’iniziativa diplomatica come unica soluzione all’escalation in corso.

Una portavoce del ministero degli Esteri ha invitato tutte le parti alla moderazione, ricordando poi come “pressioni e sanzioni” contro la Corea del Nord “non possano risolvere la questione”. Il vice-ministro degli Esteri russo, Sergey Ryabkov, ha però ammesso che un rafforzamento delle sanzioni già applicate è molto probabilmente la strada che gli USA e i loro alleati intenderanno seguire dopo i fatti di martedì.

Sul tavolo, va ricordato, c’è sempre la proposta russo-cinese che potrebbe gettare le basi per la ripresa dei colloqui tra Washington e Pyongyang e che prevede lo stop ai test missilistici da parte nordcoreana in cambio della sospensione delle provocatorie esercitazioni militari tra le forze USA e quelle della Corea del Sud. Gli Stati Uniti, da parte loro, continuano però a respingere ogni concessione se non verrà fatto un passo indietro preventivo sul programma nucleare da parte nordcoreana.

Il regime di Kim, non senza ragione, vede queste ripetute manovre come una minaccia diretta alla propria sicurezza e proprio il giorno prima dell’ultimo test missilistico si era chiusa un’altra esercitazione, durata quasi venti giorni sull’isola di Hokkaido, tra Marines americani e truppe di terra giapponesi.

Il lancio di martedì ha confermato come provocazioni e contro-provocazioni in Asia nord-orientale abbiano fatto segnare una drammatica accelerazione a partire dall’inizio dell’anno. Per il governo di Seoul, la Corea del Nord avrebbe già portato a termine 13 lanci nel corso del 2017. Un’impennata dell’attività missilistica del regime che, al contrario di quanto propone la versione ufficiale USA e dei media occidentali, è in larga misura il riflesso dell’atteggiamento sempre più ostile dell’amministrazione Trump nei confronti di Pyongyang.

L’aggressività americana, a cui l’isolato regime stalinista non può che rispondere con azioni come quella di martedì che infiammano ancor più gli scenari coreani, è direttamente collegata alla strategia marcatamente anti-cinese di Washington. Essa non prevede una distensione con la Corea del Nord, bensì un’escalation del confronto che giustifichi una presenza militare sempre più minacciosa ai confini cinesi.

La cattiva fede e la pericolosità degli Stati Uniti nell’approccio alla crisi coreana sono d’altra parte confermate dai fatti delle ultime settimane. Ad esempio, dopo che Russia e Cina avevano acconsentito ad approvare ulteriori sanzioni contro Pyongyang in un gesto di disponibilità nei confronti di Washington, per tutta risposta l’amministrazione Trump ha adottato misure punitive contro “entità” e individui russi e cinesi, accusati di fare affari con la Corea del Nord e di favorire il programma nucleare e missilistico del regime.

Se sono in molti a credere che uno scontro militare nella penisola di Corea sia tutt’altro che imminente, la condotta americana continua tuttavia ad andare in direzione contraria al contenimento della crisi, rappresentando piuttosto una minaccia sempre più seria alla stabilità del nord-est asiatico se non dell’intero pianeta.

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