di Michele Paris

Il ritorno a toni minacciosi che non si registravano da tempo, nei confronti dell’Iran da parte dell’amministrazione Trump è stato inaugurato con poca sorpresa questa settimana in seguito al test missilistico condotto domenica scorsa da Teheran. La Casa Bianca ha infatti innescato un nuovo fronte di polemiche dopo che il consigliere per la Sicurezza Nazionale, Michael Flynn, ha messo ufficialmente “sull’avviso” la Repubblica Islamica tramite una dichiarazione rilasciata alla stampa nella giornata di mercoledì.

L’avvertimento rivolto all’Iran rappresenta una mossa estremamente provocatoria, anche se l’ex generale non ha chiarito quali siano i provvedimenti che il governo americano starebbe prendendo in considerazione. Il New York Times ha citato un membro della nuova amministrazione, il quale, dopo le parole di Flynn, ha fatto sapere che la Casa Bianca non esclude iniziative militari. Tuttavia, a pochi giorni dall’insediamento, Trump non sembra intenzionato a precipitare da subito una crisi che avrebbe pesantissime conseguenze.

L’intervento di Flynn ha avuto i caratteri dell’invettiva a tutto campo contro l’Iran. Il motivo principale dell’attacco è apparso il test balistico dello scorso fine settimana, secondo il consigliere di Trump effettuato “in violazione della risoluzione 2231 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”.

Tranne che per i “falchi” della politica estera americana, che continuano spingere per un confronto con l’Iran, questa risoluzione non sembra essere stata però violata dal test missilistico di domenica. La 2231, approvata nel luglio del 2015 subito dopo la firma dell’accordo di Vienna sul programma nucleare iraniano, chiede alla Repubblica Islamica di non condurre “attività con missili balistici realizzati per essere in grado di trasportare testate nucleari”.

Il linguaggio della risoluzione non è in ogni caso vincolante, né sono previste misure punitive in caso di violazione o meccanismi per forzarne l’implementazione. Soprattutto, però, non vi sono indicazioni o tantomeno prove che il missile testato domenica dall’Iran sia da collegare a ordigni nucleari.

I test balistici convenzionali non sono coperti né vietati dalla suddetta risoluzione ONU e, comunque, l’Iran non possiede armi nucleari, né è impegnato in progetti per la loro realizzazione. Come ha ragionevolmente spiegato l’agenzia di stampa ufficiale iraniana Fars, “il divieto immaginario [previsto dalla risoluzione 2231] è di fatto obsoleto alla luce dell’accordo nucleare di Vienna, dal momento che l’Iran ha chiaramente ridotto il proprio programma nucleare civile al punto da rendere del tutto impossibile la fabbricazione di una testata nucleare”.

Non solo - ha aggiunto l’editoriale pubblicato giovedì - questo punto di vista è condiviso dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, il cui più recente rapporto afferma che “l’Iran sta rispettando l’intesa sul nucleare” e i missili di cui dispone non hanno nulla a che fare con armi atomiche.

Ugualmente basate su prove inesistenti sono state anche le accuse di Flynn all’Iran di essere dietro l’attacco di lunedì scorso da parte dei ribelli Houthi yemeniti contro una nave da guerra saudita nel Mar Rosso. Per Flynn, la responsabilità di altre azioni degli Houthi sciiti contro l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti sarebbe da attribuire ancora all’Iran, poiché questo paese fornirebbe loro armi e addestramento.

L’offensiva dell’amministrazione Trump contro l’Iran ha preso soltanto spunto dal test missilistico di domenica scorsa. Quelli lanciati mercoledì dal consigliere di Trump sono infatti i primi segnali espliciti di un’iniziativa che il neo-presidente aveva prospettato mesi fa in campagna elettorale. L’obiettivo principale di essa rimane il possibile smantellamento dell’accordo di Vienna sul nucleare, come ha confermato lo stesso Flynn mercoledì denunciando l’arrendevolezza di Obama nei confronti della Repubblica Islamica.

A partire dall’elezione nel mese di novembre, Trump ha anche fatto capire che la sua amministrazione sarebbe stata disposta ad assecondare l’isteria anti-iraniana di Israele, di fatto unica potenza nucleare (non dichiarata) in Medio Oriente. Molti membri del suo governo sono d’altra parte accesi sostenitori della destra israeliana.

Il nuovo direttore della CIA, l’ex deputato Repubblicano Mike Pompeo, nel 2015 si era ad esempio adoperato al Congresso per bloccare l’accordo di Vienna. Il segretario alla Difesa, James Mattis, pur avendo tiepidamente sostenuto l’intesa sul nucleare durante la sua recente audizione di conferma al Senato, era stato invece rimosso da Obama dall’incarico di comandante del Comando Centrale dopo avere invocato un’azione militare in territorio iraniano come ritorsione per un presunto attacco alle forze di occupazione in Iraq da parte di una milizia sciita appoggiata da Teheran.

Lo stesso Flynn è notoriamente animato da feroci sentimenti anti-islamici che non risparmiano l’Iran. Anch’egli perse il posto di direttore dell’Intelligence Militare sotto l’amministrazione Obama a causa delle teorie cospiratorie e xenofobe che avanzava. In un suo libro, inoltre, delineava una strategia di cambio di regime e di guerra contro l’Iran che gli Stati Uniti avrebbero dovuto perseguire.

L’inversione di rotta rispetto alla relativa moderazione di Obama sulla Repubblica Islamica da parte dell’amministrazione Trump non è ad ogni modo soltanto il risultato dello stato mentale al limite del patologico di alcuni suoi componenti. L’atteggiamento di sfida risponde a una strategia ben precisa auspicata dalla sezione della classe dirigente americana che ha promosso e sostiene il nuovo presidente.

Innanzitutto, le provocazioni e le minacce anche di guerra rivolte all’Iran smentiscono le presunte tendenze isolazioniste di Trump e dimostrano come la retorica nazionalista riassunta dallo slogan “America first” implichi una politica estera ancora più aggressiva del recente passato, senza riguardo per le posizioni di alleati o partner internazionali né per le precedenti iniziative distensive.

Più precisamente, per quanto riguarda l’Iran, svariati commentatori hanno fatto notare come il comportamento dell’amministrazione Trump sia mirato a ostacolare, se non spezzare, il processo di integrazione euro-asiatica in atto e che vede come principale protagonista proprio Teheran, assieme a Mosca e a Pechino.

Questa strategia prevede un riavvicinamento alla Russia per cercare di fermare il consolidamento dei rapporti di questo paese con la Cina, mentre gli attacchi contro l’Iran sarebbero una sorta di offensiva contro l’anello (relativamente) debole della catena per colpire ulteriormente il coagularsi degli interessi di questi tre paesi.

Il tentativo alle prime battute di Trump si trova di fronte comunque ostacoli difficilmente superabili, a cominciare dalla declinante influenza degli Stati Uniti sugli scenari internazionali. All’interno della sua stessa amministrazione, per non parlare del Partito Repubblicano e dell’intero apparato di potere americano, le posizioni relative all’approccio all’Iran sono poi tutt’altro che univoche.

Molti ritengono pericoloso un eventuale affondamento dell’accordo sul nucleare di Vienna, dal momento che metterebbe a rischio il già non semplice accesso del capitale USA al mercato e alle risorse energetiche dell’Iran, laddove le aziende europee e asiatiche stanno da tempo muovendo i primi passi in questo senso.

Inoltre, il riesplodere di una crisi con Teheran ritarderebbe o metterebbe a repentaglio i piani di coloro che vedono Russia e Cina come nemici principali dell’imperialismo americano. Infine, la rinnovata ostilità di Washington nei confronti dell’Iran rischia di creare ulteriori divisioni con un’Europa che, soprattutto per ragioni di ordine economico, appare ben avviata verso la normalizzazione dei rapporti con la Repubblica Islamica e, quindi, per nulla disposta a tornare al vecchio regime delle sanzioni.

La portata destabilizzante di Trump sulle relazioni bilaterali degli Stati Uniti e, a livello più ampio, sugli equilibri strategici nelle aree cruciali del globo è apparsa evidente infine dalla notizia circolata giovedì e relativa a una tesissima telefonata tra il neo-presidente e il primo ministro australiano conservatore, Malcolm Turnbull.

I due hanno discusso di un accordo, sottoscritto dall’amministrazione Obama con il governo di Canberra, che prevede l’invio negli Stati Uniti di 1.250 rifugiati di religione islamica che l’Australia “ospita”, di fatto illegalmente e in condizioni disumane, in strutture detentive sulle isole di Manus, in Papua Nuova Guinea, e di Nauru. In cambio, l’Australia riceverebbe rifugiati attualmente negli USA e provenienti dal centro America.

Secondo le ricostruzioni, quando Turbull avrebbe insistito con Trump per il rispetto dell’accordo, quest’ultimo ha finito per sbottare, minacciando di non accettare i rifugiati e interrompendo bruscamente la conversazione.

Al di là della questione relativa a poche centinaia di immigrati, la tensione esplosa tra i due alleati è sintomatica delle ansie che attraversano i leader australiani dopo l’elezione di Trump. Il dilemma strategico, ma anche economico, dell’Australia, stretta tra l’alleanza con gli Stati Uniti e i legami commerciali sempre più profondi con la Cina, non potrà infatti che aggravarsi a causa dell’atteggiamento aggressivo verso Pechino promesso dalla nuova amministrazione Repubblicana.

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