E’ una rumorosa e tragica campagna elettorale quella che ha preso avvio in Russia in vista delle presidenziali fissate per il 2008. Non si svolge secondo le regole classiche della dialettica politica. Volano colpi bassi in un mare di retorica. Ma, soprattutto, esplodono colpi di pistola, si alternano raffiche di kalashnikov ed attentati. Nessun dialogo a distanza, ma scontri ravvicinati tra bande rivali. Restano sul campo oligarchi e portaborse, banchieri e manager, politici e giornalisti, amministratori e membri di consigli d’amministrazione… Le parole che più ricorrono nei rapporti di polizia sono “mafia” e “massoneria”, “lobby” e “clan”. E i dibattiti che annunciano le battaglie cominciano nelle strade, nei night-club o nei ristoranti di maggior lusso per poi finire nel freddo delle stanze degli obitori. I cimiteri sono così l’ultimo palcoscenico come avviene a Mosca dove quello di “Vaganskoie” - che vede la tomba del poeta Esenin - ha già una via di croci ortodosse o di stelle di David con su scritti i nomi dei ladri e dei corrotti raggiunti dalla “giustizia” delle cosche. E' in questo mondo stravolto dalla violenza che si svolge la corsa per la presidenza del Cremlino. Qui non sono in gioco ideologie o schieramenti geopolitici. Nessuna operazione intellettuale per una eventuale trasmissione delle idee, nessun percorso politico. Nessun laboratorio sociale. La lotta all’ultimo sangue è per il bottino economico. E i fatti delle ultime settimane confermano l’esistenza di una “dialettica” politica che alle parole e alle denunce sceglie le soluzioni finali. E così riemergono quelle congiure che sembravano sepolte sotto le macerie del crollo dell’Urss. Si torna a parlare degli intrighi spionistici, della “disinformazione”, del ruolo dei “servizi segreti” e dei rapporti tra Kgb, Cia e Mossad. E Putin - che ha fatto di tutto per scrollarsi di dosso l’etichetta di “agente” - si ritrova impantanato in una Russia dove uomini d’affari e affaristi, killer e kamikaze, spioni e provocatori, vendicatori ed avvelenatori vanno a braccetto. E non è questa “la fine della storia”: è l’incipit di un nuovo e devastante periodo che annuncia una campagna elettorale destinata a dare la vittoria a chi spara più forte. Gli avversari, quindi, non si battono, ma si abbattono.
Procediamo con ordine. Ricordando subito che la transizione da Eltsin a Putin è stata, sin dai primi momenti, caratterizzata da una sorta di intesa tra gli organismi della sicurezza (Putin e il suo Kgb) e le strutture portanti del Cremlino. In pratica si stabilì allora un ferreo compromesso: “noi” salvaguardiamo gli interessi della famiglia-Eltsin e “voi” ci lasciate campo libero.
Ma sulla strada di questa linea di condotta si sono subito incontrati degli ostacoli. Perché se Eltsin si è ritirato in casa tra le sue bottiglie, gli uomini del suo entourage non hanno rinunciato ad alzare il prezzo del loro silenzio. E subito c’è stata una proliferazione di dossier segreti e pubblici. Tanto che nelle librerie si sono trovati moltissimi volumi che – se letti oggi – contribuiscono a far luce sui vecchi e suoi nuovi sommovimenti. I titoli di queste opere parlano da soli: “Dossier speciale su Putin e i più grossi proprietari”, “L’elite del business e il potere statale”, “Chi è mister Putin e chi è arrivato con lui?” , “La logica della direzione putiniana”; “La delinquenza organizzata e il potere”; “Il lobbismo in Russia”; “Gli uomini di San Pietroburgo attorno a Putin”; “Chi è stato educato nella polizia segreta può solo costruire uno stato di polizia”…
Sempre nel contesto analisi a grandi linee, il Putin del Kgb che credeva di aver occupato tutti i posti della nomenklatura si è ritrovato (e si ritrova) a dover lottare contro i nuovi oligarchi e contro i vecchi compagni del Kgb. Sembra proprio che non gli venga perdonato il fatto di aver promosso ai ranghi dirigenziali i suoi amici di cordata di San Pietroburgo e della scuola del Kgb.
Lotta dura, quindi, nell’ambito della famiglia dei “servizi”? Il conto degli omicidi eccellenti è notevole. La criminalità organizzata (e pilotata dai vertici politici ed economici) colpisce ogni giorno. Poco fa è stato ucciso Zemlichan Magomedov, direttore dell’Istituto nazionale del petrolio, un importante centro di consulenza finanziaria. E ancora: è stato ucciso il vicegovernatore della Banca centrale, Andrej Kozlov. Fatto fuori anche il direttore di una filiale della Banca di stato, Aleksandr Plochin… E le esecuzioni coinvolgono anche altre repubbliche ex sovietiche.
PUTIN
E’ un personaggio che prima di arrivare al vertice del Cremlino non ha frequentato i palazzi del Pcus, ma quelli ben più importanti del Kgb. Non solo, ma si è formato all’estero, in quella Rdt che era considerata come una vera e propria università per quanti volevano divenire agenti di rango. Eccolo quindi nella fortezza sulla Moscova con poteri illimitati. Perché se nel periodo sovietico – da Breznev in poi – le decisioni dovevano essere “collettive” e c’era anche un certo controllo da parte dei Soviet, con l’arrivo di Putin tutto è nelle mani di una sola persona. Tutto. Non c’è tema della vita politica, sociale, culturale o economica che non veda Putin prendere la parola, ordinare, correggere, imporre.
E così comincia una contestazione sotterranea. Una nuova forma di dissenso. Tanto che un’organizzazione come “Reports sans frontiere” sottolinea che la Russia “è scivolata verso l’autoritarismo in materia di informazione”. Ma i diktat del Cremlino vanno ben oltre i media. E in questo contesto Putin - per ottenere il consenso delle ali più estremiste del nazionalismo locale - si appoggia a quei settori dell’intelligence che gli permettono di controllare quanto avviene all’interno del paese e quanto bolle nella pentola geopolitica. Ha, quindi, bisogno di stabilire rapporti con uomini potenti, ricchi. Con avventurieri che si muovono tra la politica e il business…
Gli incidenti di percorso non mancano. La Cecenia, tra l’altro, è uno di questi. Perché vede coinvolti politici e affaristi, commercianti di armi e servizi segreti che vanno dalla Cia al Mossad. Ma dove si infiltrano anche personaggi di scarsissimo livello che cercano comunque di ritagliarsi un ruolo nel grande gioco. Ed ecco, cronologicamente, gli ultimi avvenimenti.
IL CASO POLITKOVSKAJA
L’uccisione della giornalista Anna Politkovskaja, avvenuta il 7 ottobre scorso, è solo un anello della catena. Era stata lei a portare nelle pagine della stampa più autorevole le vicende della Cecenia. Aveva narrato le storie delle cosche mafiose del Caucaso entrate sempre più in contatto con il mondo delle oligarchie vicine al Cremlino. Aveva fatto i nomi distinguendosi per lucidità e coraggio e aveva anche ammesso che: "Vivere così è orribile”. Aggiungendo poi, come in un testamento: “Vorrei un pò più di comprensione, ma la cosa importante è continuare a raccontare quello che vedo". E quello che la Politkovskaja vedeva era un connubio sempre più pesante tra le oligarchie post-sovietiche e i signori alloggiati nelle stanze del Cremlino.
In pratica, grazie alle documentate dichiarazioni della giornalista, si andava sempre più evidenziando la piovra del mondo economico dei “nuovi russi”. Giri di miliardi, vendite e appalti, transazioni e furti, traffici di armi e di narcotici. Non è un caso se le denunce della Politkovskaja sono state accolte dal silenzio del Cremlino e della società “democratica”. Un silenzio rotto solo dai colpi di pistola che l’hanno freddata sulla porta di casa. Ma la Politkovskaja - pur portando con se molti altri segreti che non aveva fatto in tempo a scoprire - è pur riuscita a ricordare ai russi l’esistenza di tanti e tanti nomi di personaggi del potere centrale. Protetti dal Cremlino e dai servizi segreti oppure nemici di Putin nel campo del grande gioco degli affari. Tutti, comunque, importanti, ricchi e potenti. E così tornano sulla scena Berezovskij e Chodorkhovskij.
BEREZOVSKIJ
Boris Abramovic Berezovskij (1946). E' al vertice dell'Olimpo degli oligarchi della nuova Russia. Ed è, al tempo stesso, il rappresentante di una burocrazia finanziaria onnipotente e onnipresente. Soros lo definì "genio del male". A 37 anni partecipa alla realizzazione delle strutture direzionali e amministrative della fabbrica di auto Vaz nella città di Togliatti, sul Volga. E sue diverranno molte azioni dell'azienda dopo la privatizzazione. Nel 1992 comprende che per essere accettato come oligarca anche nel cosiddetto mondo intellettuale deve pur concedere qualche premio a chi diverrà, di conseguenza, un suo adepto. Da così vita ad un premio denominato “Triumf” (Trionfo) che sarà consegnato ad esponenti della cultura della Russia. In soldi: 100mila dollari.
Entra sempre più nel mondo dei grandi affari. E trova, nello stesso tempo, la strada per arrivare anche ai centri direzionali del Paese. Diviene consulente governativo per le questioni della politica industriale. E in un clima di rapporti e relazioni apparentemente informali avvia il suo rapporto con la "famiglia" del Presidente Eltsin. E sarà sempre Berezovskij ad appoggiare Eltsin alle presidenziali e ad ottenere, poi, la “Sibneft”, il colosso finanziario del mondo petrolifero della Siberia.
Nel 1994 entra nel mondo dei mass-media divenendo non solo vice presidente della Tv nazionale (Ort), ma anche uno dei maggiori azionisti. Nel 1995 diventa presidente della direzione della società petrolifera “Sibneft” e ne è, praticamente, anche il proprietario. E così l'intero mondo energetico della regione di Omsk - nel nord siberiano - passa sotto il suo controllo. Ma contemporaneamente prende in mano anche altre attività imprenditoriali. Come, ad esempio, quelle relative alle compagnie “Aeroflot” e “Transaero”. Ed è in seguito a queste operazioni finanziarie che è ritenuto uno degli uomini più ricchi della Russia.
Nel 1996 è nominato vice segretario del Comitato per la sicurezza della Russia che nasce sulle ceneri del Kgb. E qui il vero colpo di scena. Il conflitto di interessi, vista la sua implicazione diretta in aziende e società panrusse, è più che evidente. Quindi con un atto ampliato da tutti i media annuncia di abbandonare il mondo della finanza. Ma è un atto formale. Perché, in pratica, continua a seguire le holding che aveva. Ed ora ha dalla sua parte anche la nuova e forte autorità che gli deriva dall'essere alla testa dei servizi di intelligence. In apparenza tutto sembra muoversi in assoluta tranquillità, ma Berezovskji sta assumendo a poco a poco un potere enorme. Si dice, in questi anni di grandi transazioni, che aspira al vertice politico. E così i cambiamenti di linea che attua nelle strutture che controlla non sono solo di superficie. Sa di avere di fronte una classe politica senza storia e senza idee. Si regola, di conseguenza perché forte dei suoi capitali. Prende parte attiva alle varie trattative tra Mosca e Grozny e nel 1997 diviene, di fatto, il "curatore" dell'intera area caucasica. Che è poi quella dove transitano gasdotti e oleodotti di rilievo strategico. E si occupa anche di quel conflitto interno alla Georgia che riguarda l'atteggiamento di Tbilissi nei confronti della rivolta dell'Abchasija, una realtà nazionale che è orientata verso Mosca.
Ma la lotta intestina contro Berezovskij non si placa. Il 4 novembre 1997 è destituito dal Consiglio di sicurezza. Si salva ugualmente divenendo consigliere dell'amministrazione della Presidenza. Il posto al Cremlino gli è garantito dall'amicizia con la figlia di Eltsin, Tatjana.
Il 28 aprile 1998 è nominato segretario della Csi, la Confederazione di Stati Indipendenti, sorta sulle ceneri dell'Urss. Ma anche in questo nuovo posto di grande responsabilità opera per coinvolgere la Confederazione in operazioni di ordine economico-finanziario. Il 15 dicembre 1999 è eletto alla Duma.
Nel 2000 - forte del suo impero finanziario e dagli appoggi che gli arrivano dagli Usa e da Israele - comincia ad attaccare le strutture del Cremlino e Putin, in particolare. La Procura generale risponde con una serie di inchieste nei suoi confronti. Sceglie così la strada dell'emigrazione politica e va a vivere in Inghilterra e negli Usa. Mantiene, ovviamente, le sue proprietà e la direzione dell'intero impero che ha costruito dopo il crollo dell'Urss. E a Londra Berezovskij fissa il suo quartier generale. Quello della lotta a Putin. E l’alleato in questa azione è un altro oligarca: Chodorkovskij.
CHODORKOVSKIJ
Michail Borisovic Chodorkovskij (1963) è un personaggio che ha costruito un suo impero sfidando, di volta in volta, sia il mondo finanziario che quello politico del Cremlino. Ha sempre operato al limite della legalità, con pesanti cadute che lo hanno portato nelle carceri di Mosca. E, comunque, sempre pragmatico con una forte tendenza al compromesso e alla mediazione. E’ stato membro dell’organizzazione giovanile comunista e qui ha costruito la sua carriera nel mondo del commercio e dei grandi affari. Nel 1989 si trova alla testa di una banca e nel 1990 - mentre l'Urss e il Pcus si avviano al crollo - assume un ruolo di primo piano in una nuova struttura finanziaria denominata “Menatep-Invest” ed organizzata sulla base delle strutture economiche della vecchia direzione del movimento della gioventù comunista, il Komsomol.
E' l'inizio di una carriera che lo porterà a divenire uno degli uomini più potenti dell'epoca post-sovietica. Nel 1992 - mentre si dimostra disposto a servire più fazioni contemporaneamente - è nominato presidente del Fondo del complesso energetico della Russia. Investe direttamente i suoi capitali e diviene, nello stesso tempo, consigliere del premier della Russia. Nel marzo 1993 diviene ministro dell'Energetica. Sale nella scala gerarchica e nel periodo che va dal 1994 al 1995 opera in accordo con il ministero dell'Economia. Nel settembre 1995 diviene presidente della compagnia “Rosprom” e nell'aprile è già vice presidente della “Spa Jukos”, il colosso dell'industria petrolifera. Ottiene poi la presidenza della banca “Menatep”. D'ora in poi sarà uno dei boss del mondo finanziario. In pratica il gruppo “Menatep” si identifica con il Gruppo-Chodorkovskij che comprende sei oligarchi. E Chodorkovskij, in questa compagnia, detiene il 59,5% delle azioni. Ma nel 1998 c'è il primo crak finanziario: la banca viene liquidata. E il 29 settembre 1999 il tribunale di Mosca dichiara bancarotta per la “Menatep”. Il 25 ottobre 2003 Chodorkovskij è rinchiuso nel carcere Matrosskaja Tishina di Mosca. E' accusato di non aver pagato le tasse. E la stampa della capitale ("Argumenty i fakty", n.48 del 2004) scrive che nel 1998 aveva un reddito di 1,3 miliardi di dollari; nel 2002 di 3,7 miliardi; nel 2003 di 8 miliardi e nel 2004 di 15,2 miliardi. Ora anche Chodorkovskij – in quanto oligarca contro Putin - è nella scena di questo caso Litvinenko. Anche lui dalla prigione moscovita potrebbe avere un ruolo in questa guerra di spie, di provocatori e di terroristi della politica attuale.
Quattro personaggi, quindi, sullo sfondo della vicenda attuale: cioè quella relativa alla morte dell’ex agente dei servizi segreti della Russia, Aleksandr Litvinenko.
Ma anche qui procediamo con ordine.
LITVINENKO
Aleksandr Litvinenko è uno dei tanti agenti del Kgb. Di quello, però, che è stato “riformato” dopo la fine dell’Urss. Il suo ingresso nell’organizzazione risale, infatti, al 1991 quando gli sono affidati vari incarichi nel dipartimento centrale che si occupa della lotta al terrorismo. Resta in servizio fino al 1998 raggiungendo il grado di colonnello. Ed è in questo periodo (è lui a sostenerlo) che avrebbe ricevuto l’ordine di uccidere il magnate dissidente Boris Berezovskij.
Cominciano qui i suoi guai. Viene arrestato più volte e poi prosciolto. E nel 2000, per sfuggire ad un nuovo arresto, ripara a Londra. Dove, appunto, si trova Berezovskij. Nella capitale entra in contatto con vari ambienti dello spionaggio internazionale e nel 2002 pubblica un libro «The Fsb blows up Russia» in cui sostiene che gli attentati di Mosca - attribuiti ai separatisti ceceni - erano stati organizzati dai servizi segreti russi per giustificare la ripresa della guerra in Cecenia. Arriva così (dopo aver ottenuto da poco la cittadinanza britannica) al fatidico 1° novembre 2006. In questo giorno - così rendono noto varie ricostruzioni di stampa – incontra, in un sushi bar di Londra, a Piccadilly Circus, due russi e un italiano: Mario Scaramella, consulente della commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Mitrokhin. Poco dopo Litvinenko è colto da malore. Ha 43 anni. Ricoverato, sostiene di essere stato avvelenato.
Il 20 novembre da Londra le agenzie di stampa rendono noto che Litvinenko sta lottando contro la morte in un ospedale londinese e che il suo avvelenamento sarebbe stato "ordinato dallo Stato russo". Tutto questo perché solo i servizi segreti russi potrebbero aver fatto una cosa del genere, come dichiara al “Times” un ex capo del Kgb.
Sull’onda lunga delle polemiche e delle dichiarazioni si inserisce, a questo punto, un amico di Litvinenko, Oleg Gordievski, capo negli anni '80 degli agenti del Kgb in Gran Bretagna e transfuga di più alto rango dei servizi segreti sovietici in Occidente.
E’ lui che, pur ignorando l'identità dell'avvelenatore, sospetta che si tratti di amico russo o di un ex collega. "Sicuramente tutto questo è stato ordinato dallo Stato russo" dichiara Gordievski aggiungendo che il veleno usato “era molto sofisticato".
E il 23 novembre, dopo tre settimane di agonia, Litvinenko muore. Sono le 21,30, ora di Londra. Poco dopo, sulla base dei risultati delle analisi, è reso noto che sarebbe stato avvelenato con una ''grossa dose'' di “polonio-210”, una sostanza radioattiva. Lo riferisce il professore Pat Troop, dell' Health protection agency secondo cui l'ex agente dei servizi segreti potrebbe aver ingerito la sostanza letale, inalata oppure questa potrebbe essere entrata nel suo corpo attraverso una ferita.
Intanto familiari e conoscenti dell'ex agente sostengono che la morte è stata provocata dai vertici del Cremlino. Le accuse si riferiscono direttamente a Putin e al Kgb da lui controllato. E in questo contesto ci si riferisce al quotidiano britannico "The Times" al quale Litvinenko, in un'intervista esclusiva, aveva dichiarato che "quei bastardi ce l'hanno fatta con me, ma non ci riusciranno con tutti. Questo prova che stavo dicendo la verità".
A questo punto tesi e testimonianze cominciano ad essere estremamente confuse. Si dice, ad esempio, che lo stesso Litvinenko avesse raccontato che il giorno nel quale aveva iniziato a sentirsi male aveva avuto un incontro con un ex-collega dei servizi segreti della Russia e con un esperto dell’antiterrorismo italiano, al quale aveva mostrato una mail nella quale erano scritti i cognomi dei presunti assassini della giornalista ostile al Cremlino Anna Politkovskaya, assassinata a Mosca.
E c’è in merito anche una ricostruzione degli avvenimenti diffusa il 25 novembre dalla “Adnkronos/Ign”. L’agenzia si chiede: “Di cosa hanno parlato Livinenko e Mario Scaramella durante il loro incontro tenutosi lo scorso primo novembre a Londra in un sushi bar di Piccadilly Circus? Secondo il quotidiano Guardian , Scaramella avrebbe mostrato al suo informatore russo - durante il pranzo che sarebbe costato la vita all'ex spia - due e-mail in cui si parla dell' ''uso della forza'' contro i ''nemici della Russia''. Nei due messaggi di posta elettronica, i cui mittenti sono sconosciuti e di cui il Guardian ha ottenuto una copia, si fa riferimento alla necessità da parte dell'intelligence russa di un giro di vite contro il ''nemico pubblico numero uno'' (l'oligarca russo esule a Londra Boris Berezovski) e il suo ''compagno d'armi'' (un chiaro riferimento ad Alexander Litvinenko, ndr). Nei passaggi delle mail - probabilmente delle conversazioni tra agenti dei servizi segreti russi esterni (Svr) -, ripresi dal quotidiano inglese, compaiono in vari punti due personaggi indicati con le iniziali di nome e cognome 'PG' e 'MS', probabilmente Paolo Guzzanti e Mario Scaramella, presidente ed ex consulente della commissione Mitrokhin. PG e MS vengono indicati come potenziali obiettivi, per le loro ''attività antirusse'', insieme a Litvinenko e Berezovsky. Litvinenko, come confermato dallo stesso Scaramella, era un informatore della commissione Mitrokhin”.
SCARAMELLA
L’attenzione si sposta così sempre più sull’italiano presente all’incontro del 1° novembre. Si tratta, appunto, di Mario Scaramella, consulente della commissione Mitrokhin e noto per aver svolto indagini su eventuali rapporti tra i servizi del Kgb e le Brigate Rosse. Ma tra le sue attività investigative ci sono anche quelle relative alla sicurezza ambientale. Il senatore Guzzanti, presidente della commissione Mitrokhin ha scritto recentemente che Mario Scaramella, ha “la terribile colpa di essere sempre stato in contatto con la comunità degli esuli russi sul Tamigi, formata da Vladimir Bukovski, Oleg Gordievski, Alexander Litvinenko e Viktor Suvorov, nom de plume di Vladimir Bogdanovich Rezun, uno dei pochissimi fuorusciti dal Gru (servizio segreto militare) cui non abbiano ancora fatto la pelle''.
Ed ecco una rapida rassegna di quanto si è detto e si dice in Russia sulla morte di Litvinenko. Il 24 novembre la stampa - dopo un silenzio durato diversi giorni - è piena di commenti dai quali risulta un generale scetticismo verso l'ipotesi di un coinvolgimento diretto del Cremlino.
Secondo le “Izvestija” , Litvinenko non era nel mirino di nessuno e la sua morte sarebbe stata un regalo gradito solo per l'ex oligarca esiliato a Londra Boris Berezovski, nemico giurato di Putin.
Nemmeno la “Komsomolskaja Pravda” crede a un complotto: "Le accuse a Putin sono inconsistenti anche perché l'ex spia non ha mai rappresentato una minaccia per il potere di Mosca. È vero invece che l'incidente ha ulteriormente danneggiato l'immagine della Russia in occidente".
Simile l'opinione del “Moskovskij Komsomolez” : uccidere un uomo che vive in esilio da anni, e che ha già reso note da tempo le sue accuse, non avrebbe senso.
Anche il vicedirettore di “Kommersant”, Kirill Rogov, non ritiene verosimile un coinvolgimento del Cremlino, che non avrebbe tratto alcun beneficio dalla morte dell'ex colonnello. "Il modo in cui l'occidente ha commentato l'assassinio di Anna Politkovskaja e l'attentato a Litvinenko – scrive Rogov – riflette tutti i pregiudizi accumulati negli ultimi anni sulle élite e le autorità russe". Sempre sullo stesso giornale, il deputato della Duma Gennadi Gudkov (un passato nel Kgb) sostiene che le cause della morte di Litvinenko sono da ricercare nella lotta tra quanti vogliono mettere le mani sui soldi che l'ex oligarca Berezovski, amico della vittima, distribuisce nel tentativo di creare intorno a sé un gruppo di persone fidate. L'unica voce fuori del coro è il quotidiano “The Moscow Times”. Dalle sue pagine un ex militare sovietico in esilio, Boris Volodarski, pur ammettendo che Putin poteva essere all'oscuro del piano per l'avvelenamento, accusa apertamente l'Fsb: "La morte di Litvinenko – scrive Volodarski – serve ad avvertire Berezovski che Londra non è più un posto sicuro e che i servizi russi possono colpire anche lontano da Mosca".
Di diverso tono i giornali di Londra.
Secondo il “Times”, l'indiziato numero uno è il Cremlino: "Litvinenko era una spina nel fianco di Vladimir Putin a causa del suo passato e delle sue critiche. Se quest'ipotesi fosse provata, sarebbe uno dei più gravi abusi mai perpetrati dalla Russia nel Regno Unito". Per il quotidiano britannico non ci sarebbe da stupirsi: "L'Fsb, l'agenzia di servizi segreti che ha sostituito il Kgb, è ancora convinta che l'Occidente trami contro gli interessi della Russia, ed è impegnata in una caccia spietata ai traditori, specialmente quelli che parlano troppo dai loro rifugi all'estero".
Sempre sul “Times”, il columnist Robert Skidelsky avanza qualche dubbio: "Decine di oppositori hanno perso la vita o il lavoro da quando Putin è arrivato al potere con l'obiettivo di ristabilire l'autorità dello stato. Ma non dobbiamo fare l'errore di pensare a un potere monolitico. La Russia non ha un governo: ha un principe a capo di una corte lacerata da fazioni rivali. È possibile che questi crimini siano stati ordinati a livelli più bassi della struttura, ma con il nulla osta della alte sfere". Anche per Mary Dejevsky, che scrive sull' “Independent”, la faccenda non è così semplice: "L'ipotesi della mano di Putin dietro all'attentato è chiara, ma è da provare. Il Cremlino ultimamente si sta sforzando molto di migliorare la propria immagine, e questi omicidi sono l'ultima cosa di cui ha bisogno. Sia Litvinenko che Politkovskaja avevano molti altri nemici. È possibile che la giornalista sia stata tirata in ballo per via della sua reputazione all'estero e per creare ulteriori problemi a Putin”.
Acque torbide, quindi, sull’intera vicenda del caso Litvinenko. Putin - che ha detto che fino a ora non c'è alcuna prova che si sia trattato di una «morte violenta» - si trova a dover fare i conti con nuove ed oscure manovre di palazzo. E questa volta i fatti hanno come teatro non solo il Cremlino, ma si estendono anche a Londra e a Roma dove uomini della commissione Mitrokhin si trovano impegnati in prima fila nella critica e nelle accuse al Cremlino. Ha detto il senatore Guzzanti: “Litvinenko è stato per tre anni un mio informatore personale e riservato durante i lavori della Commissione Mitrokhin, e i miei contatti con lui sono sempre avvenuti attraverso il professor Mario Scaramella, consulente ufficiale della Commissione d'inchiesta parlamentare”.
Putin si trova, quindi, stretto tra più fronti. Gli oligarchi del dissenso che lo accusano e i servizi segreti (deviati?) che non rispondono più ai suoi diktat. Tutto questo con la comunità internazionale che torna a parlare del Kgb.
Il giallo continua mentre le elezioni presidenziali della Russia si avvicinano. E Putin potrebbe affogare, questa volta, proprio nella palude di quella casa-madre che lo ha allevato e promosso.
CASO LITVINENKO: L'ASSE MOSCA-ROMA-LONDRA
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