di Michele Paris

A un anno esatto dalla firma dello storico accordo sul programma nucleare iraniano (Piano d’Azione Congiunto Global o JCOPA), alla Repubblica Islamica viene riconosciuta quasi universalmente la rapida implementazione di tutti i principali obblighi imposti dai paesi del gruppo P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania). Il rispetto delle condizioni, spesso molto gravose, sottoscritte dall’Iran non è stato però ricambiato, se non in minima parte, con le concessioni previste, soprattutto a causa della resistenza degli Stati Uniti.

L’atteggiamento di Washington che, secondo alcuni, potrebbe addirittura compromettere l’intero accordo, è dovuto principalmente a due ordini di fattori, il primo da collegare alle divisioni che attraversano la classe dirigente americana sull’opportunità e lo scopo dell’accordo, il secondo alla mancata materializzazione, almeno per il momento, dei dividendi strategici che gli Stati Uniti avevano sperato e sperano di raccogliere grazie al processo di relativa distensione con Teheran.

Tra le iniziative intraprese dall’Iran per adeguarsi al piano d’azione, entrato in vigore lo scorso gennaio, ci sono la drastica riduzione della propria scorta di uranio impoverito, la conversione del reattore ad acqua pesante di Arak, la rimozione del materiale nucleare dall’impianto di Fordow e lo smantellamento dei due terzi delle 19 mila centrifughe operanti a Natanz. Inoltre, gli ispettori dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) si trovano regolarmente in Iran per controllare le operazioni connesse al JCOPA.

Secondo il direttore della Arms Control Association americana, sentito sulla questione dall’agenzia di stampa McClatchy, “l’aspetto più rilevante dell’accordo con l’Iran è finora la facilità con cui è stato implementato”, quanto meno da parte del governo di Teheran. Questo risultato appare tutt’altro che trascurabile, viste le “difficoltà tecniche” previste dai protocolli.

D’altro canto, Teheran lamenta giustamente i ritardi con cui l’Occidente e, in particolare gli USA, sta procedendo nel consentire l’accesso dell’Iran ai propri fondi, pari a decine di miliardi di dollari, congelati all’estero dalle sanzioni economiche degli anni scorsi. Allo stesso modo, la maggior parte delle sanzioni finanziarie applicate dagli Stati Uniti restano in vigore, ostacolando l’accesso al credito da parte iraniana e la corsa delle aziende occidentali a fare affari in questo paese dopo anni di isolamento.

Banche e compagnie europee non hanno in realtà praticamente alcun ostacolo legale per poter operare in Iran. Tuttavia, la persistenza delle sanzioni USA le rende estremamente caute, per il timore di ripercussioni negative che, in sostanza, potrebbero tradursi nell’impossibilità di operare sul mercato americano.

In un articolo apparso mercoledì sulla pubblicazione on-line Middle East Eye, l’ex ambasciatore britannico presso l’AIEA, Peter Jenkins, ha affermato che gli Stati Uniti sono “in violazione” dell’accordo sul nucleare, avendo fatto poco o nulla per garantire all’Iran “l’accesso al commercio, alla tecnologia, alla finanza e all’energia”.

A impedire lo sblocco della situazione c’è il fatto che le sanzioni unilaterali imposte dagli USA restano tuttora al loro post, anche perché per rimuoverle servirebbe un voto del Congresso, dove l’opposizione all’accordo sul nucleare resta fortissima. L’intesa di Vienna non prevedeva la cancellazione di questi provvedimenti, i quali sono motivati dal presunto sostegno che l’Iran offrirebbe al terrorismo internazionale. Le sanzioni americane colpiscono soprattutto esponenti dei Guardiani della Rivoluzione, un’istituzione con parecchi interessi economici in Iran.

Ferma restando l’assurdità di un’accusa che gli Stati Uniti utilizzano a piacimento a seconda degli orientamenti strategici di questo o quel paese, molti a Washington fanno riferimento anche ai test missilistici condotti recentemente dall’Iran. A questo proposito va però ricordato che l’accordo siglato a Vienna il 14 luglio 2015 riguardava solo la questione del nucleare, mentre, come ha spiegato ancora l’ambasciatore Jenkins, “non esiste una proibizione globale al possesso di missili” o a test con questi armamenti, “né l’Iran risulta soggetto a divieti ad hoc del Consiglio di Sicurezza ONU” in questo ambito.

Di recente, lo stesso segretario di Stato americano, John Kerry, aveva affrontato le perplessità del business occidentale, assicurando pubblicamente che le banche europee non avevano nulla da temere nelle relazioni con l’Iran, salvo poi avvertire della necessità di essere ben consigliate per non finire impigliate nel groviglio delle sanzioni USA.

Proprio in questi giorni una vicenda ampiamente riportata dalla stampa internazionale sta dimostrando le difficoltà del processo di distensione tra Stati Uniti e Iran, assieme alle spaccature create a Washington dall’accordo sul nucleare. Essa riguarda il colosso americano dell’aeronautica Boeing, il quale, senza dubbio con il sostegno dell’amministrazione Obama, aveva annunciato un’intesa per la vendita di 80 aeromobili alla compagnia Iran Air per il valore di quasi 18 miliardi di dollari.

La possibile vendita sarebbe la prima in assoluto di questa importanza tra aziende dei due paesi rivali a partire dalla rivoluzione del 1979. La Camera dei Rappresentanti al Congresso americano a maggioranza Repubblicana ha però approvato qualche giorno fa una misura apposita per bloccare l’affare. Il presidente Obama, da parte sua, ha risposto minacciando di porre il veto sull’iniziativa di legge, in modo da salvaguardare l’accordo di vendita.

La mossa del Congresso è stata seguita dalle prevedibili recriminazioni dei vertici di Boeing. Se l’accordo di vendita dovesse essere impedito, sostiene la compagnia con sede nello stato di Washington, lo stesso divieto dovrebbe essere imposto anche alle altre aziende americane che forniscono parti di aerei a produttori stranieri in competizione con Boeing. Il riferimento è chiaramente all’europea Airbus, la quale a inizio anno aveva già siglato un accordo per la vendita di 118 velivoli in Iran.

Le relazioni con la Repubblica Islamica continuano dunque a essere estremamente controverse negli Stati Uniti. L’amministrazione Obama, che tramite il Dipartimento di Stato ha negoziato l’accordo sul nucleare, rappresenta una parte della classe dirigente americana intenzionata a percorrere per il momento la strada della diplomazia.

Ciò non comporta tuttavia il riconoscimento del diritto di Teheran a perseguire politiche indipendenti nella regione mediorientale e in Asia centrale. Se mai, l’obiettivo è quello di attirare l’Iran nell’orbita strategica degli Stati Uniti, per una volta attraverso mezzi relativamente pacifici piuttosto che con la minaccia militare, peraltro sempre percorribile in caso di necessità.

Altri negli USA, tra cui gli ambienti Repubblicani e una parte dei membri del Congresso Democratici, ritengono invece che non vi sia alcuna utilità nel dialogare con l’Iran. Gli strumenti da utilizzare per imporre la supremazia americana su questo paese e su tutto il Medio Oriente restano perciò le pressioni, le sanzioni economiche punitive e la guerra.

Che anche la strategia della “distensione” promossa dall’amministrazione Obama escluda comunque il rispetto delle legittime ambizioni iraniane e l’integrazione del paese nei circuiti economici e finanziari internazionali è confermato proprio dagli impedimenti provenienti da Washington alle concessioni previste dall’accordo sul nucleare a favore di Teheran.

La cautela con cui il governo americano sta procedendo è motivata probabilmente dal persistente atteggiamento dell’Iran in relazione alle questioni più calde in Medio Oriente. Sulla crisi siriana, i rapporti con Hezbollah in Libano, su Israele, lo Yemen e le monarchie sunnite del Golfo Persico, la Repubblica Islamica continua cioè a mantenere i propri consueti orientamenti, posizionandosi nello schieramento opposto a quello degli USA e dei loro alleati.

Fino a quanto Washington non assisterà quanto meno a segnali di un qualche mutamento strategico provenienti dall’Iran, è probabile che le concessioni che spettano a questo paese arriveranno con il contagocce. Il rischio, però, è che la rigidità degli Stati Uniti finisca per rafforzare le posizioni dei falchi iraniani, i quali, come le loro controparti dall’altra parte dell’oceano, cercano in tutti i modi di far naufragare l’accordo sul nucleare, sostenuto invece dal governo moderato del presidente Rouhani e, sia pure in maniera più cauta, dalla guida suprema, ayatollah Ali Khamenei.

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy