di Michele Paris

La sentenza sfavorevole alla Cina, emessa martedì dal Tribunale Arbitrale Permanente de L’Aja, sulle dispute territoriali con le Filippine nel Mar Cinese Meridionale è giunta tutt’altro che inaspettata. Altrettanto prevedibilmente, Pechino ha reagito ribadendo l’intenzione di non riconoscere il verdetto e di continuare a esercitare quella che il governo considera la propria legittima sovranità su una manciata di atolli e scogli nelle acque probabilmente più contese del pianeta.

La causa legale contro la Cina era stata intentata in base al dettato della Convenzione ONU del 1982 sul Diritto del Mare (UNCLOS) nel gennaio del 2013 dal governo filippino dell’allora presidente, Benigno Aquino, dopo che Pechino aveva assunto il controllo di una minuscola isola contesa tra i due paesi. Solo un mese più tardi, il governo cinese aveva risposto annunciando che non avrebbe accettato il procedimento né partecipato alle sedute del tribunale internazionale.

Quest’ultimo aveva alla fine acconsentito a deliberare su una parte delle richieste presentate dalle Filippine, per le quali riteneva di avere giurisdizione. In sostanza, a differenza di quanto spesso sostenuto dalla stampa internazionale, il tribunale de L’Aia non si è espresso sulle dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale, avendo l’autorità di dirimere soltanto contese relative a linee di demarcazione marittime, ma sullo status delle isole, degli atolli o dei semplici scogli e su quali diritti ne possono scaturire.

Il tribunale ha cioè ritenuto di non dover considerare nessuno dei territori in questione, occupati dalla Cina e facenti parte dell’arcipelago delle Spratly, in grado di ospitare una comunità umana nelle proprie condizioni naturali. Per questa ragione, Pechino non avrebbe alcun diritto a proclamare una Zona Economica Esclusiva (EEZ) al largo di queste stesse isole, né tantomeno a considerare acque territoriali cinesi quelle incluse entro 12 miglia marittime dalle loro coste. La EEZ è un’area, contigua alle acque territoriali di un determinato paese, che può estendersi fino a 200 miglia dalla linea costiera e sulla quale esso detiene il diritto di gestirne le risorse naturali e di installare strutture artificiali.

Pechino fa riferimento a diritti storici millenari per rivendicare il controllo dei territori rivendicati anche da altri paesi nel Mar Cinese Meridionale. Essi risultano inclusi nella cosiddetta “linea di demarcazione dei nove tratti”, redatta nel 1947 dall’allora Repubblica Cinese e considerata tutt’oggi politica ufficiale della Repubblica Popolare.

La posizione cinese ha alimentato da tempo contese territoriali con molti paesi dell’Asia sud-orientale, tra cui appunto le Filippine. Per decenni, questi conflitti non avevano tuttavia causato particolari tensioni tra i contendenti. Solo il ruolo degli Stati Uniti e il riassetto strategico di Washington in Estremo Oriente, parallelamente all’ascesa della Cina, hanno riacceso le dispute, culminate nella sentenza di martedì, facendo aumentare in questi ultimi anni il rischio di guerra nella regione.

Proprio agli USA va attribuita gran parte delle responsabilità nella causa legale che ha visto coinvolte la Cina e le Filippine. Non ci sono dubbi infatti che l’amministrazione Obama abbia spinto con Manila per prendere un’iniziativa senza precedenti nel quadro delle rivalità territoriali nel Mar Cinese Meridionale.

La relazione sul caso presentata al tribunale da parte filippina era stata stilata ad esempio da un influente studio legale di Washington che vanta legami con la Casa Bianca. Gli stessi avvocati americani hanno poi discusso del caso a L’Aia, dove esponenti del governo delle Filippine si sono visti in rarissime occasioni.

Se gli Stati Uniti mantengono una posizione ufficiale di neutralità sulle dispute nei mari dell’Asia orientale, la realtà è ben diversa. Nel solo caso portato all’attenzione del Tribunale Arbitrale, il dipartimento di Stato era intervenuto nel 2014 con una propria analisi dedicata alla questione, nella quale si concludeva in sostanza che la Cina era in violazione del diritto marittimo internazionale, nonostante gli USA non abbiano mai nemmeno sottoscritto la Convenzione ONU sul Diritto del Mare. L’intervento di Washington era arrivato pochi giorni dopo che Pechino aveva a sua volta diffuso un documento ufficiale in cui veniva respinta l’autorità del tribunale.

La sentenza di martedì, teoricamente vincolante anche se non esistono mezzi per garantirne l’applicazione, è stata comunque espressa in toni piuttosto duri nei confronti della Cina, a conferma del carattere sostanzialmente politico del procedimento. Oltre a respingere le basi legali delle rivendicazioni territoriali di Pechino, il tribunale ha tra l’altro affermato che la Cina ha interferito con i diritti di pesca delle Filippine in alcune aree del Mar Cinese Meridionale, mentre avrebbe anche provocato danni permanenti alla barriera corallina delle isole Spratly.

Al di là del merito della disputa e del contenuto della sentenza, gli Stati Uniti e alcuni loro alleati in Estremo Oriente intendono utilizzarla per esercitare ulteriori pressioni sulla Cina, soprattutto se il governo di questo paese dovesse reagire intensificando la propria presenza civile e militare sulle isole al centro della contesa. Già nei mesi scorsi, le forze navali di Washington avevano operato varie missioni provocatorie all’interno di quelle che la Cina considera a tutti gli effetti come proprie acque territoriali. Nel prossimo futuro potrebbero perciò verificarsi nuove pericolose provocazioni nei confronti di Pechino, con la giustificazione di salvaguardare il diritto alla “libertà di navigazione” in un’area che vede transitare merci per 5 mila miliardi di dollari ogni anno.

La Cina, da parte sua, ha prevedibilmente emesso un durissimo comunicato ufficiale per dichiarare “nulla” e “non vincolante” la sentenza del tribunale dell’Aja. Nella dichiarazione del ministero degli Esteri, le Filippine vengono accusate di essere in “cattiva fede” e all’arbitrato viene attribuito l’obiettivo non di risolvere le dispute territoriali o di “mantenere la pace e la stabilità nel Mar Cinese Meridionale”, bensì di “negare la sovranità territoriale, i diritti marittimi e gli interessi della Cina”.

Pechino fa poi correttamente riferimento a un’altra questione che mette in seria discussione la legittimità del tribunale. Nel 2006, in base all’articolo 298 della UNCLOS, il governo cinese aveva rinunciato a riconoscere alcune procedure della Convenzione stessa, quelle contenute nella Parte XV, Seconda Sezione. Queste procedure includono appunto il ricorso a un arbitrato per dirimere, tra l’altro, contese relative a linee di demarcazione in mare.

Le conseguenze della sentenza e la risposta di Pechino saranno seguite con estremo interesse anche dagli altri paesi della regione coinvolti in contese territoriali con la Cina. Tra di essi ci sono la Malaysia, l’Indonesia e il Vietnam. Soprattutto quest’ultimo paese ha mostrato recentemente di essere disposto ad assecondare le provocazioni degli Stati Uniti contro la Cina, tanto da essere anch’esso sul punto di rivolgersi a un arbitrato internazionale seguendo l’esempio delle Filippine.

Ironicamente, la sentenza del Tribunale Arbitrale potrebbe comunque essere stata accolta con poco entusiasmo proprio nelle Filippine, dove il recente avvicendamento alla presidenza è stato seguito da un tentativo di ripensare, almeno in parte, le scelte strategiche dell’amministrazione Aquino, per sei anni probabilmente la più fedele alleata degli USA in Asia orientale.

Il neo-presidente, Rodrigo Duterte, in campagna elettorale e all’indomani del suo insediamento ha lasciato intendere in più occasioni di volere intraprendere un processo di distensione con la Cina. Alla fine di giugno, inoltre, aveva espresso la necessità di trovare un “atterraggio morbido” alla vicenda legale con Pechino, riconoscendo che un verdetto a favore delle Filippine avrebbe messo il suo governo in una posizione “imbarazzante”.

Il suo ministro degli Esteri, Perfecto Yasay, martedì ha infatti chiesto “moderazione e sobrietà” a tutte le parti in causa. Il capo della diplomazia filippina, pur invitando al rispetto della decisione presa a L’Aia, ha fatto sapere che il governo di Manila intende studiare con attenzione la sentenza prima di intraprendere qualsiasi iniziativa.

La vicenda ha dunque tutte le potenzialità per trasformarsi in una vera e propria patata bollente, consegnata dal governo americano e dall’ex presidente Aquino al suo successore. Duterte si ritroverà così di fronte a un complicato dilemma già a partire dai prossimi giorni. I suoi propositi di distensione, soprattutto per ragioni economiche, con la Cina dovranno fare i conti con l’insistenza di Washington ad assumere un atteggiamento intransigente nei confronti di Pechino, nonché con la relativa isteria nazionalista alimentata tra una parte della popolazione filippina dalle discutibili scelte strategiche del suo predecessore.

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