di Mario Lombardo

Il leader dei Laburisti britannici, Jeremy Corbyn, è diventato il bersaglio di una prevedibile rivolta interna al partito dopo il risultato del referendum di settimana scorsa sull’uscita di Londra dall’Unione Europea. La sua colpa sarebbe quella di non essersi impegnato a sufficienza durante la campagna elettorale a sostegno della permanenza nell’UE. In realtà, il tentativo di golpe nei suoi confronti è stato preparato da tempo e, in definitiva, non fa che confermare tristemente la deriva reazionaria di quello che dovrebbe essere il principale partito della sinistra in Gran Bretagna.

Gli sviluppi interni al Labour erano stati previsti con una certa esattezza ad esempio da un’analisi del giornale filo-Conservatore Daily Telegraph più di una settimana prima del voto sulla Brexit. L’articolo avvertiva che la maggioranza dei parlamentari Laburisti, in caso di sconfitta nel referendum, avrebbe operato un “blitz” mediatico nelle ore successive alla chiusura delle urne al fine di rimuovere Corbyn dalla leadership del partito.

Subito dopo sarebbero partite le dimissioni di massa dei membri del governo-ombra Laburista e un’ondata di critiche pubbliche al numero uno del partito, mentre in pochi giorni avrebbe preso il via la corsa alla sua successione.

In effetti, per chi ha seguito anche in maniera approssimativa le vicende del Labour britannico negli ultimi dieci mesi questi sviluppi non erano così difficili da prevedere. La presunta incapacità di Corbyn di battersi efficacemente per il successo del “Remain” nel referendum è infatti una giustificazione patetica esibita dalla maggioranza di destra del partito per portare a termine un colpo di mano che essa aveva in serbo fin dall’elezione del nuovo leader nel settembre del 2015.

Corbyn era stato eletto con quasi il 60% dei consensi degli iscritti al partito e dei suoi simpatizzanti, i quali avevano potuto scegliere direttamente il leader Laburista grazie alle modifiche al sistema di voto decise nel febbraio del 2014 dall’allora segretario, Ed Miliband, per cercare di avvicinare gli elettori britannici al Labour.

Il suo successo a sorpresa era stato nettissimo, soprattutto grazie alla popolarità della sua agenda progressista dopo decenni di spostamento a destra del partito. Il voto per Corbyn era stato anche una testimonianza dell’ostilità popolare nei confronti dei parlamentari e leader Laburisti vicini agli ex premier Tony Blair e Gordon Brown, come avevano confermato appunto i miseri 19% e 17% raccolti dagli altri due principali candidati alla guida del partito, rispettivamente Andy Burnham e Yvette Cooper.

Il sostegno a Corbyn è stato così garantito dai sostenitori del Labour nel paese e dai principali sindacati, mentre la direzione del partito e la gran parte dei membri del Parlamento si sono rivelati feroci oppositori e hanno cercato costantemente di manovrare per la sua estromissione dalla leadership.

Dopo avere sfruttato una serie di polemiche nei mesi scorsi per esercitare pressioni su Corbyn, i golpisti Laburisti hanno fatto scattare un piano ben congegnato immediatamente dopo il referendum sulla Brexit. Già venerdì, le deputate Margaret Hodge e Ann Coffey avevano presentato una mozione di sfiducia contro Corbyn. Domenica, poi, il ministro-ombra degli Esteri, Hilary Benn, aveva comunicato a quest’ultimo di avere perso ogni fiducia nella sua leadership, venendo quindi subito sollevato dal suo incarico.

Il doveroso licenziamento di Benn ha innescato a partire da lunedì una valanga di dimissioni tra i membri del governo-ombra, tanto che Corbyn ha faticato a scegliere tutti i sostituti da nominare ai posti rimasti vacanti. A questa clamorosa manifestazione di dissenso si sono aggiunti numerosi commenti sui principali giornali che hanno diligentemente invitato Corbyn a farsi da parte o i suoi oppositori a portare a termine il cambio alla guida del partito, quasi sempre in nome del bene del Labour e della Gran Bretagna.

Martedì, infine, l’assemblea dei parlamentari Laburisti ha votato a larga maggioranza una mozione di sfiducia contro il proprio leader (172 a 40), ma la mossa non costituisce affatto l’epilogo della vicenda. Infatti, come ha risposto correttamente Corbyn, la mozione non è vincolante e lo statuto del Labour non prevede l’avvicendamento della leadership tramite un voto di questo genere.

Corbyn si è così rifiutato di dimettersi, almeno per il momento, e ha invitato i suoi oppositori a sfidarlo in una nuova elezione a cui dovranno partecipare, come lo scorso anno, gli iscritti e i sostenitori del partito. I fedelissimi di Corbyn in questi giorni stanno facendo appello al rispetto delle norme previste dal partito, essendo ben consapevoli della determinazione della destra del Labour nel raggiungere il proprio obiettivo al di là delle regole e della volontà degli elettori.

Se, normalmente, un candidato alla segreteria ha bisogno di una cinquantina di membri del Parlamento che lo sponsorizzino, numero difficile da raggiungere al momento per Corbyn, il leader in carica del partito può automaticamente prendere parte alla competizione. Corbyn e i suoi puntano precisamente su quest’ultima norma, certi che una nuova consultazione darà un esito simile a quello dello scorso anno.

Mentre in Parlamento e negli uffici del Labour andava in scena la rivolta contro Corbyn, a Londra si sono mobilitati decine di migliaia di suoi sostenitori e una petizione on-line a favore del segretario del partito ha raccolto ben 230 mila firme, cioè circa la metà del numero dei votanti nell’ultima elezione per la leadership Laburista.

Se la destra del partito rispetterà le regole di voto attuali, Corbyn sembra avere buone probabilità di essere confermato alla guida del Labour, sia pure a costo di una possibile spaccatura o scissione del partito. I suoi oppositori stanno cercando invece di coalizzarsi attorno a un unico candidato, in modo da non disperdere il voto di coloro che non sono intenzionati a scegliere Corbyn.

Secondo le notizie che arrivano da Londra, sarebbero due i contendenti rimasti, l’ex ministro-ombra delle Attività Produttive, Angela Eagle, e il numero due del Labour, Tom Watson. La prima venne promossa a incarichi di rilievo nel partito da Tony Blair e ha fatto parte del governo Brown, così come Watson.  Quest’ultimo, però, ha invitato a rallentare sulla questione del voto per la leadership, preferendo attendere che Corbyn si faccia da parte volontariamente.

Watson comprende perfettamente che un voto popolare nel breve periodo riconsegnerebbe con ogni probabilità a Corbyn la leadership del partito. Per questa ragione invita ad attendere che le pressioni, gli attacchi e le denunce facciano il loro corso fino a spingere alle dimissioni un leader che non si è certo distinto finora per risolutezza e decisione.

La Brexit ha dunque offerto l’occasione alla destra Laburista di provare a dare la spallata definitiva alla leadership di Jeremy Corbyn, nonostante la sconfitta nel referendum costituisca senza dubbio un motivo di imbarazzo soprattutto per il primo ministro Conservatore, David Cameron. Anzi, secondo una strategia sensata, il colpo subito dal capo del governo avrebbe dovuto suggerire al Labour di unirsi attorno al proprio leader e accelerare la crisi dei “Tories”, così da giungere a elezioni anticipate con realistiche chances di successo.

Il Labour ha al contrario optato per una strategia suicida su iniziativa dell’accozzaglia di parlamentari della galassia “Blairita”, già responsabili della trasformazione del partito in un baluardo delle politiche guerrafondaie e di libero mercato. L’impressione, osservando le vicende di questi giorni, è che la destra Laburista veda con orrore un successo del proprio partito alle elezioni sotto la leadership di Corbyn.

Un governo guidato da quest’ultimo potrebbe d’altronde mobilitare, almeno potenzialmente, milioni di giovani, lavoratori e appartenenti alle classi medie contro guerre e austerity, complicando l’implementazione dell’agenda reazionaria imposta dai grandi interessi economici e finanziari, a cui gli oppositori di Corbyn nel Labour fanno appunto riferimento.

In ultima analisi, comunque, le responsabilità di Corbyn nella situazione di crisi in cui si trova il suo partito e la sua leadership non sono da trascurare. Dopo l’elezione a settembre, infatti, la sua gestione è stata improntata alla ricerca dell’unità e del compromesso con i suoi oppositori interni, coltivando l’illusione - oggettivamente fuori dalla realtà - di poter cambiare il Labour e farlo diventare un partito al servizio delle classi più disagiate.

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