Nella totale indifferenza dei media occidentali il Senato americano ha dato il suo consenso allo storico accordo nucleare tra USA ed India. Il provvedimento è stato passato nella sessione detta “dell’anatra zoppa”, due giorni nei quali il vecchio Senato ormai scaduto ha approvato gli ultimi provvedimenti prima di entrare in una fase di latenza fino a quando, a gennaio, non si insedieranno i nuovi senatori (e la nuova maggioranza) usciti vincitori dalle elezioni di mid-term.
Il fatto che all’accordo indo-americano sia stata riservata una corsia preferenziale e che esso abbia concluso il suo iter parlamentare con il voto di senatori non più confermati, non rappresenta una forzatura dei repubblicani, in quanto l’accordo ha un robusto sostegno bipartisan (85 voti a favore contro 12 al Senato). Al contrario l’accordo sembra essere considerato l’unica cosa buona fatta in politica estera dall’amministrazione Bush; almeno dal punto di vista americano.
Diversi aspetti dell’accordo tra i due grandi paesi meritano di essere definiti “storici”. Sullo sfondo dell’accordo c’è l’inversione di tendenza nei rapporti tra i due paesi, che fin dall’indipendenza del gigante indiano avevano avuto più occasioni d’attrito che momenti di sintesi comune.
Sono passati appena trent’anni da quando l’amministrazione repubblicana di Nixon, all’epoca impegnata a sostenere il genocidio dei bengalesi da parte della dittatura pachistana, chiese all‘ambasciatore cinese di attaccare l’India promettendo la protezione americana da una possibile reazione sovietica e ottenendo in cambio un netto rifiuto. All’epoca, nelle parole di Nixon, gli indiani erano “cortesi, ma traditori” e i pachistani “stupidi, ma fedeli” e Indira Ghandi era una “schifosa”. Erano i tempi nei quali l’India guidava il “terzo mondo” uscito dalla conferenza di Bandung e flirtava troppo con l’Unione Sovietica per essere simpatica.
Oggi, crollata ogni fiducia nell’alleato pachistano, di fronte alla prospettiva di essere estromessa dall’Asia emergente come continente-guida del secolo entrante, la dirigenza americana ha deciso un drastico cambiamento nel quadro delle alleanze e si è aperta alla collaborazione con l’India. Dall’altra parte del tavolo dell’accordo, il governo indiano ha deposto (almeno formalmente) la tradizionale diffidenza verso gli Stati Uniti ( “gli americani capiscono solo la forza” si dicevano i diplomatici indiani al Congresso ai tempi di Indira) e ha portato a casa un accordo dal quale, almeno in apparenza, ottiene solamente vantaggi.
L’accordo tra i due paesi introduce inoltre una svolta nella storia della proliferazione nucleare. L’India ottiene dagli Stati Uniti l’accesso alle più avanzate tecnologie nucleari, alle forniture di uranio, l’ingresso tra i contraenti “forti” del Trattato di Non Proliferazione (nucleare), oltre al permesso di acquisire dalle industrie americane le più avanzate tecnologie sviluppate nella missilistica, elettronica e nell’aerospaziale. L’accordo si fonda su una evidente ipocrisia, per la quale da un lato gli Stati Uniti forniranno solo aiuti per il nucleare “civile” e dall’altro l’India entra dalla porta principale nel club delle potenze nucleari senza fornire alcuna contropartita.
In realtà gli USA avranno il loro guadagno sotto forma di un legame forte con l’India e soprattutto sotto forma di denaro e di aperture del mercato indiano che andranno a gratificare le grandi corporation americane. Se infatti l’accordo vale - già ora- cento miliardi di dollari di forniture americane, non bisogna dimenticare che il cambio nelle relazioni tra i due paesi ha già eletto l’India come paese preferito dai grandi investitori statunitensi.
Dal punto di vista strettamente militare il guadagno è strategico per gli USA, mentre è tremendamente reale per l’India e non stupisce che a siglarlo sia stato un governo decisamente nazionalista come quello attuale. Per festeggiare il big deal gli indiani hanno cominciato a diffondere analisi per le quali, dal riconoscimento di status di “potenza” non più ai margini della “legalità” internazionale, discende per l’India il diritto di controllo sull’Oceano Indiano così come gli Usa avrebbero quello di controllare Atlantico e Pacifico.
Ambizioni giustificate, l’accordo soddisfa la fame di energia dell’India, ma la mette anche nelle condizioni di dotarsi nel giro di un decennio di un arsenale atomico che per numeri e modernità della missilistica diventerebbe il terzo al mondo dopo quello americano e quello russo. Tutto questo nella legalità, perché nell’accordo con Washington, Dehli si impegna a mettere sotto controllo internazionale solo 18 delle 24 centrali delle quali dispone, mentre per altre 24 in costruzione si riserverà di scegliere quali saranno “segrete” e quali trasparenti. Esattamente gli stessi “obblighi” che hanno Usa, Russia, GB, Cina e Francia, per i quali il TNP non è che l’ennesimo impegno-farsa scritto sull’acqua a fotografare una situazione di fatto e a vestirla con i crismi di una “legalità” che vale solo per gli altri.
Al di là dei sofismi e delle sottigliezze giuridiche, il risultato complessivo è che nei prossimi anni l’India prevede di costruire 24 reattori con una potenza media di 1000 MW ciascuno concentrati in “distretti” costieri, portando l’energia nucleare da un 3% del totale nazionale prodotto fino quasi al 40%. Il piano sembra aver galvanizzato General Electric (che ha costruito il 40% delle centrali esistenti sul pianeta), Westinghouse Power e le francesi Areva ed Electricite de France. Altri sicuri benefici andranno a Nuclear Energy Institute e Thorium Power; ma si sono già fatte avanti la russa Atomstroyexport e anche la Cina, che possono offrire agli indiani contratti vantaggiosi in termini di costi. Secondo uno studio (molto ottimistico) la ricaduta negli USA varrà 270.000 qualificatissimi posti di lavoro in più nel settore nucleare. Per sostenerne l’approvazione l’India ha speso una cifra-record presso due società di punta del lobbysmo americano, ma non ce n’era un gran bisogno poiché le aziende americane sopraccitate sono tradizionali grandi elettrici dei parlamentari americani e hanno ampie capaci d’intervento a Washington.
Se neppure la Cina ha sollevato obiezioni politiche all’accordo, l’accordo potrebbe essere benvenuto senza grosse critiche; se non fosse che le valutazioni dei governi non sempre integrano gli interessi collettivi. Esistono infatti due ordini di criticità: la prima riguarda il riarmo atomico indiano; anche se l’India si comporterà in futuro nel più responsabile dei modi nei confronti dei paesi vicini, l’upgrade atomico indiano comporterà sicuramente una accelerazione della corsa al nucleare da parte del Pakistan (che infatti sta costruendo il suo primo reattore al plutonio da 1000 MW) e, allo stesso modo, potrebbe essere un argomento a favore dei fan della bomba atomica in paesi come l’Iran, ma anche in Giappone, nelle Coree, in Indonesia, Malesia e oltre.
La seconda invece attiene al senso di un’operazione che prevede la costruzione di centrali atomiche quando gran parte del mondo avanzato ha già deciso di non costruirle più e quando ormai la ricerca si orienta sui reattori a fusione e sulle energie rinnovabili. L’india, grazie all’accordo e all’ingresso nel club dei “buoni” parteciperà al progetto ITER (reattori fusione), ma nel frattempo costruirà qualche decina di centrali che hanno gli stessi limiti per i quali si è deciso quasi ovunque di non costruirne più e di smantellare quelle esistenti.
L’accordo permette ad americani e francesi di continuare a vendere una tecnologia ormai obsoleta ed antieconomica; l’India compra anche questa insieme ad altri vantaggi, ma si assume il costo occulto dello smaltimento delle scorie, il vero buco nero nel quale collassa qualsiasi valutazione costi/benefici che riguarda questo tipo di centrali. Risulta chiaro a chiunque che garantire lo stoccaggio di masse di scorie per periodi che vanno sulla scala delle decine di migliaia di anni a fronte della vita media di centrali che si misura in decenni, costa cifre inimmaginabili. E’ dimostrato che i siti francesi di stoccaggio disperdono radioattività e inquinano le acque delle regioni dove sono costruiti; gli Stati Uniti non sono ancor riusciti a costruire un sito che sia in grado da fungere da deposito nazionale e persino in Italia, quel po’ di scorie che abbiamo è disperso in depositi incapaci di fornire le minime garanzie di sicurezza e si disperde periodicamente nell’ambiente.
L’India grazie all’accordo diventa a pieno titolo una potenza del secolo entrante e la vera incognita è quella che riguarda il carattere della futura potenza planetaria, la gestione del nuovo e più potente apparato militare (molto high-tech, ma anche con la possibilità di dispiegare truppe convenzionali in numeri enormi) ed il profilo che il paese assumerà nelle politiche regionali ed internazionali una volta che avrà completato la sua transizione al nuovo status. La più grande democrazia del mondo, come viene spesso definita, in realtà è ancora una società frammentata tra caste, religioni e stili di vita ed impostazioni politiche spesso agli antipodi tra loro, compresa una forte componente nazionalista indù che evoca, in alcuni suoi aspetti, immaginari troppo simili a quelli dei neoconservatori americani per poter dire fin da ora che tutto andrà per il meglio.
Gli Stati Uniti, oltre ad incassare bene vendendo a caro prezzo un prodotto che ha una scarsissima valenza economica reale, legano ancora di più l’India ai circoli del capitalismo anglo-occidentale; una tendenza in atto da tempo, peraltro ben testimoniata anche dall’affare Mittal-Arcelor, dalla collaborazione in campo militare con Israele e dall’ondata di investimenti occidentali che ha preceduto la sigla dello storico accordo. Si può definire a buon diritto una svolta epocale, ancora di più alla luce dei rapporti con la Cina. Sarà un caso, ma dopo che il veto all’acquisto cinese di UNOCAL ha tracciato la linea, l’India ha recentemente vietato l’acquisto di una rete cellulare da parte di un’azienda cinese e ha inserito la Cina nella lista dei paesi che non possono fare affari in settori “sensibili” per la sicurezza nazionale indiana, il che vuol dire che gli affari con la Cina saranno sottoposti al controllo politico. In questa lista, dalla fondazione dell’India fino al mese scorso, era stato scritto un solo nome, quello del Pakistan. La Cina ha reagito a modo suo e il presidente Hu Jintao si è presentato a Dehli per la firma di enormi e vantaggiosissimi accordi, benvenuto da tutti, imprenditori ed investitori per primi; l’India dopo questo accordo è destinata a diventare l’avanguardia del terziario avanzato e uno dei principali mercati per la fabbrica-mondo che ha già il suo pilastro nella Cina.
In questo vortice di cifre stellari e di tsunami globalizzanti non si trova traccia di investimenti sociali, quindi i costi occulti degli accordi tra i grandi ricadranno sui piccoli. La maggiore disponibilità di energia non porterà la corrente elettrica negli slum indiani, i prodotti americani (e cinesi) faranno concorrenza ai prodotti locali e l’ingresso delle “big company” castrerà la possibilità per le aziende locali di farsi “grandi”. L’accordo, cucito su modelli “classici” di sviluppo, aumenterà inoltre il tasso sfruttamento dell’ambiente e delle risorse naturali nel sub-continente indiano e nel Sud-Est asiatico. L’India si è detta pronta a joint venture minerarie con Australia e Canada per nutrire la sua incombente fame d’uranio e il suo ingresso come buyer nel mercato internazionale porterà sicuramente ad un apprezzamento notevole del minerale.
Tutta l’India ha festeggiato l’accordo che negli Stati Uniti invece è passato sottotraccia; gli unici paesi che l’hanno commentato sono la Cina, il Pakistan e l’Iran. La posizione dell’Iran sul nucleare esce rafforzata dalla formalizzazione dell’accordo che rende ancora più ipocrita la minacciosa ostilità USA al suo programma nucleare. Nel resto del mondo non se ne è accorto nessuno.
INDIA NUCLEARE, L’ULTIMO GOLEM DELL’OCCIDENTE
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