di Fabrizio Casari

Padre del monetarismo, Nobel per l’economia nel 1976, fondatore dei Chigago boys. E' il ritratto accademico di Milton Friedman, l’economista scomparso due giorni fa a San Francisco, alla veneranda età di novantaquattro anni. I commenti che sui giornali ricordano la figura di Friedman sono, come di prammatica, improntati su valutazioni entusiastiche che, prima ancora che il personaggio, spargono incenso sulle sue teorie economiche. Il che non è strano dal momento che le sue teorie economiche sono state le dottrine che hanno ispirato le politiche economiche sulle privatizzazioni, che hanno eletto la stabilità monetaria ed il rigore di bilancio ad asse centrale della solidità economica, trasformando uno degli elementi in dogma assoluto. Milton Friedman è stato l’ispiratore, molto tempo dopo Adam Smith ed estremizzando il suo pensiero, della guerra del capitale contro il lavoro. Teorizzò non solo l'abbattimento di ogni imposizione fiscale (se non a livelli miseri), ritenendo la fiscalità generale una sottrazione di ricchezza per gli individui, ma anche la necessaria scomparsa di ogni ruolo del pubblico nell'economia, l'indispensabile uscita dello Stato da ogni attività economica ed ogni regolamentazione, così da garantire l'assoluta preminenza del mercato che, da sé, troverebbe la sua regolamentazione. Le vittime principali delle politiche economiche di Friedman furono le economie globalmente intese, le stabilità socio-economiche di diversi Paesi e dei lavoratori. Grazie alle sue teorie, la deregulation di Ronald Reagan - del quale Friedman fu ascoltatissimo consulente, dopo aver anche lavorato intensamente con Nixon - trasformò in otto anni gli Stati Uniti da maggior creditore a maggior debitore, mentre il governo della Signora Thatcher decretò lo smantellamento del welfare-state britannico, trasformando il lavoro da attività principale in variabile precaria ed aumentando la disoccupazione riducendo al minimo la domanda interna.

Del resto, Friedman fu l’inventore della bislacca teoria della “disoccupazione naturale”, un fenomeno che egli definiva “temporaneo” nei meccanismi di mercato ma che, più che ad un ridotto tasso fisiologico, si vide ampliare nell’applicazione della sua dottrina a grandezze e tempi insopportabili per qualunque tessuto sociale. Le politiche economiche ispirate da Friedman rappresentarono la reazione del capitale internazionale alle politiche economiche di scuola keynesiana - che dal dopoguerra tenevano insieme sviluppo dell’economia e solidità sociale dei paesi - e furono l’impronta ideologica di un capitalismo che si gettò con il sangue agli occhi nella seconda rivoluzione tecnologica degli anni ’80.

Ora, rispetto agli aspiranti stregoni redazionali del pensiero liberista, Milton Friedman era anche un liberale, nel senso politico del termine. Con una coerenza innegabile, infatti, proponeva una centralità del mercato libero da ogni vincolo in economia, allo stesso tempo in cui proponeva l’assoluta libertà e centralità dell’individuo nei confronti della società. Non a caso le sue posizioni in merito alle droghe, all’eutanasia ed ai diritti civili più in generale, rappresentano la parte occultata – magari perché ritenuta meno importante - del suo pensiero. Un liberale ed un liberista convinto, ben diverso da quanti invocano la libertà assoluta degli affari in economia, sommandola alla riduzione assoluta delle libertà individuali nella sfera socio-politica. Poi certo, coerentemente con il pensiero liberale, Friedman non proponeva diritti collettivi ma solo individuali, confermando l’antica dissonanza tra diritti di tutti e privilegi di pochi. Comunque, seppure le sue posizioni ricalcavano le teorie liberali più radicali, il mancato riconoscimento di queste non divenne mai un ostacolo alla sua sete di protagonismo.

Se gli Stati Uniti e la Gran Bretagna furono il laboratorio principale per l’applicazione delle sue teorie, il vero bagno di folla lo ottenne nelle disastrate economie del sud del mondo, particolarmente in quelle latinoamericane. Ed a dimostrare come le libertà assolute del denaro sono possibili solo quando vengono meno quelle delle persone, furono il Cile di Pinochet e l’Argentina di Videla, cioè le due dittature militari peggiori della storia latinoamericana, il teatro dove la recita dei conti dimenticava la contabilità della democrazia. Insomma Friedman fu prima di tutto l’evidenziazione della contraddizione capitalistica tra libertà degli affari e libertà pubbliche.

La contraddizione Friedman la risolse con semplicità, lasciando alle sue teorie sociali sulla libertà il ruolo di fanalino di coda delle sue lezioni, assegnando tutte le priorità alle teorie economiche, anche quando queste venivano applicate in contesti che negavano in nuce le sue teorie liberali. Milton Friedman fu infatti il demiurgo del regime fascista cileno di Augusto Pinochet. Dal 1975, due anni dopo il colpo di Stato che gettò il Cile nell’abisso della dignità, aprendo una delle pagine più infami della storia moderna, Friedman – su input di Henry Kissinger, ispiratore e consigliere di Pinochet – diede inizio alla collaborazione intensa tra l’Università di Chicago, (la sua “casa”, vero e proprio tempio del monetarismo) e quella dell’Università cattolica (of course) di Santiago del Cile.

Se in partenza l’obbiettivo era quello di organizzare la formazione degli economisti di regime, presto i Chicago boys entrarono direttamente nel gabinetto di governo della giunta genocida. Le loro teorie vennero applicate con devozione delinquenziale e l’economia cilena divenne un arma di distruzione di massa: abolizione del salario minimo, dei diritti sindacali, deregolamentazione, svendita del capitale pubblico e privatizzazioni ad oltranza (i cui beneficiari, chissà perché, erano sempre aziende Usa, ma furono anche l’inizio dell’arricchimento personale del boia Pinochet e dei suoi compari). Il tutto, in assenza completa di opposizione interna o voci dissonanti, che abbondavano invece nelle celle di tortura che, da Villa Grimaldi allo stadio di Santiago, riempivano di sangue il modello liberista cileno. Friedman ha sempre dichiarato una collaborazione minima con il boia di Santiago, ma ha sempre rivendicato come "giusta" la sua opera di consulenza. Di fronte a chi gli domandava se non avesse dei rimorsi per aver aiutato in qualche modo lo sviluppo economico della feroce dittatura, l'economista rispondeva che non toccava a lui dare giudizi, lui faceva il suo mestiere di economista anche quando non condivideva de tutto i metodi dei suoi clienti.

E non è nemmeno un caso se il Nobel che gli viene assegnato arrivò nel 1976, dopo tre anni cioè durante i quali i suoi servigi erano stati a disposizione del boia della Moneda. Senza la minima ombra di vergogna, Milton Friedman, mentre il paese affogava nel sangue, arrivò a definire l’economia cilena “un miracolo”. Per questo, dopo che nel 1975 Alan Greespan, potentissimo Governatore della Federal Reserve statunitense, lo elogiò pubblicamente per la riuscita del “miracolo”, puntuale arrivò, un anno dopo, il Premio Nobel. L'anno prima, il premio era stato assegnato - per altri "meriti" - al mandante del genocidio cileno, quell’Henry Kissinger dietro la cui ombra il miracolo dei Chicago boys e di Pinochet gettava il Cile nella disperazione. Kissinger consegnò il Cile a Pinochet, Friedman restituì i beni del Cile agli Stati Uniti. Due vanitosi compari che sollevano un premio con una tragedia di un popolo sullo sfondo.

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