di Mario Lombardo

Il previsto esito delle elezioni presidenziali e parlamentari di sabato scorso a Taiwan rischia di introdurre un nuovo elemento generatore di tensioni in un continente asiatico già segnato dalle conseguenze destabilizzanti del riallineamento strategico operato dagli Stati Uniti. Anche se il successo del Partito Democratico Progressista (DPP) di opposizione, tradizionalmente più freddo nei confronti di Pechino rispetto ai rivali del Kuomintang (KMT), non comporterà mosse clamorose nel prossimo futuro, come una possibile dichiarazione formale di indipendenza dalla Cina, il processo di integrazione di Taiwan con la madrepatria potrebbe infatti subire una battuta d’arresto e invertire la tendenza che ha segnato questi ultimi otto anni.

Le previsioni che indicavano un cambio della guardia alla guida dell’isola non sono state dunque smentite alla chisura delle urne. La candidata del DPP, Tsai Ing-wen, è stata eletta presidente con il 56% dei consensi, contro appena il 31% raccolto da Eric Chu del KMT. Quattro anni fa, Tsai era stata battuta di misura dal presidente uscente, Ma Ying-jeou, impossibilitato a ricandidarsi quest’anno dopo avere esaurito il massimo di due mandati previsti dalla legge.

Il DPP ha anche ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi nel Parlamento unicamerale di Taiwan (68 su 113), sottratto al controllo del KMT per la prima volta dal 1949. L’ormai ex partito di maggioranza ha ottenuto solo 36 seggi, mentre quelli rimanenti sono andati a partiti minori e a candidati indipendenti.

La campagna elettorale che ha preceduto il voto dello scorso fine settimana aveva avuto al centro dell’attenzione la situazione economica di Taiwan, visto il peggioramento dello scenario in seguito alla contrazione registrata nell’ultimo trimestre del 2015 e a una crescita di appena l’1% su base annua. Parallelamente, il rallentamento dell’economia cinese e le difficoltà dell’economia mondiale hanno pesato in maniera decisiva sull’export taiwanese, crollato di oltre il 10% nel 2015.

Tutto ciò ha influito in maniera decisiva sulle fortune del KMT, visto soprattutto che il presidente uscente aveva promesso livelli di crescita sostenuta grazie alla distensione e al rafforzamento dei legami economici con Pechino. A partire dal 2008, Ma Ying-jeou e il suo governo avevano siglato una serie di accordi commerciali e di investimento con la Cina, generando di conseguenza un clima di distensione come mai si era visto in passato. Lo scorso novembre a Singapore, Ma e il presidente cinese, Xi Jinping, erano stati anche i primi leader di Taiwan e Repubblica Popolare Cinese a incontrarsi di persona dal 1949.

Al di là dei recenti affanni dell’economia cinese che hanno avuto effetti negativi su Taiwan, gli ostacoli alla politica del KMT erano già apparsi evidenti nel 2014 con la nascita di un movimento studentesco di protesta (“Movimento dei Girasoli”) che contestava un nuovo accordo commerciale con Pechino relativo al settore dei servizi.

La mobilitazione aveva avuto il proprio culmine nell’occupazione del parlamento di Taipei per impedire la ratifica dell’accordo e rifletteva sostanzialmente le posizioni degli interessi economici taiwanesi preoccupati per le conseguenze della concorrenza cinese sull’isola. A queste sezioni del business indigeno fa riferimento anche il DPP della neo-presidente Tsai, la quale è riuscita inoltre a raccogliere il consenso degli elettori più colpiti dal rallentamento dell’economia con una serie di proposte di stampo populista.

Nella serata di sabato, comunque, Tsai si è affrettata ad assicurare che la sua amministrazione non intende provocare alcuna scossa sul fronte delle relazioni con Pechino, da dove sono subito giunti “inviti” al DPP a evitare anche solo la retorica dell’indipendentismo. In un intervento televisivo in campagna elettorale, inoltre, la candidata alla presidenza per l’opposizione aveva assicurato che, una volta eletta, non avrebbe “messo in atto provocazioni” o preso iniziative “a sorpresa”. Allo stesso tempo, la neo-presidente ha però ribadito la necessità del rispetto della “identità nazionale” e dello “spazio internazionale” di Taiwan per non “compromettere la stabilità delle relazioni” bilaterali.

Le questioni economiche di Taiwan sono d’altra parte intrecciate a quella dei rapporti con la Cina e, secondo gli osservatori, la sfida del DPP nei prossimi quattro anni consisterà principalmente nel riuscire a mantenere le promesse di crescita soddisfacendo le aspettative dei propri sostenitori che chiedono politiche più autonome da Pechino rispetto a quelle perseguite dal Kuomintang.

La differenza principale tra il KMT e il DPP, e che potrebbe generare tensioni in prospettiva futura, risiede nel fatto che quest’ultimo partito – di orientamento indipendentista – non condivide l’intesa informale con Pechino sul principio di “una sola Cina”, sia pure interpretato in maniera differente dalle due parti.

La leadership cinese vede cioè Taiwan come una provincia che deve tornare prima o poi sotto il proprio controllo, anche se all’interno di un sistema che prevede una più o meno ampia autonomia, mentre il KMT si considera il governo legittimo di tutta la Cina fin dalla fuga sull’isola del governo nazionalista di Chang Kai-shek nel 1949 dopo la sconfitta nella guerra civile.

Da Pechino le preoccupazioni per l’avvicendamento alla guida di Taiwan sono già emerse in maniera abbastanza chiara. L’atteggiamento tenuto finora sembra però essere di pragmatismo e di attesa, almeno fino a quando il nuovo presidente formulerà con chiarezza la posizione del prossimo governo sulla questione dei rapporti con la Cina.

La leadership “comunista”, se pure non si aspetta dichiarazioni di indipendenza o altri gesti plateali da parte della nuova amministrazione a Taipei, è ben consapevole che anche solo una parziale deviazione dalle politiche del KMT potrebbe ulteriormente aggravare le tensioni in Asia orientale.

Ad esempio, Tsai Ing-wen ha più di una volta manifestato il desiderio di fare aderire Taiwan alla cosiddetta Partnership Trans-Pacifica (TPP), il mega-trattato di libero scambio sui generis promosso dagli Stati Uniti per cercare di limitare l’influenza economica della Cina sulle due sponde dell’oceano Pacifico.

Più in generale, gli interessi a cui fa riferimento il DPP auspicano politiche più autonome che consentano al business locale di superare gli ostacoli rappresentati dal mancato riconoscimento internazionale di Taiwan da parte delle principali potenze del pianeta. Qualsiasi mossa in questo senso rischierebbe però di provocare durissime reazioni da parte di Pechino.

L’elezione del nuovo presidente a Taipei si inserisce così inevitabilmente nel quadro delle manovre americane per contenere Pechino, fatte di iniziative economiche, diplomatiche e militari per intensificare i legami con vari paesi dell’Estremo Oriente. Washington ha già intrapreso una serie di azioni provocatorie nei confronti della Cina, alimentando lo scontro tra la seconda economia del pianeta e alcuni suoi vicini, in particolare attorno a rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese Orientale e Meridionale fino a poco tempo fa di secondaria importanza.

Anche solo un eventuale accenno di interesse per un allineamento strategico agli USA da parte della nuova leadership taiwanese potrebbe quindi infiammare in maniera pericolosa lo scontro tra Washington e Pechino.

Gli Stati Uniti, almeno ufficialmente, non sembrano peraltro interessati al momento ad aggiungere un altro motivo di tensioni nei rapporti con la Cina. La reazione al voto di sabato da Washington è stata infatti piuttosto cauta e ha evidenziato soprattutto la necessità di salvaguardare la stabilità raggiunta negli ultimi otto anni con i governi del KMT.

Gli USA, tuttavia, intendono continuare a mantenere le relazioni con Taiwan a un livello tale da potere utilizzare l’isola come strumento per esercitare pressioni su Pechino, come conferma la recente decisione dell’amministrazione Obama di dare il via libera alla vendita di armi all’isola per un valore di quasi due miliardi di dollari.

Anzi, prima e dopo il voto che ha riportato al potere una forza tendenzialmente anti-cinese a Taipei, all’interno della classe dirigente americana si sono già fatte sentire le voci dei tradizionali “falchi” che spingono per aprire un nuovo fronte nello scontro con la Cina, pur essendo perfettamente a conoscenza delle possibili gravi implicazioni di un’aperta provocazione su un tema così delicato per Pechino.

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