di Michele Paris

Con le 50 tonnellate di armi recapitate dal cielo domenica scorsa ai “ribelli” anti-Assad, gli Stati Uniti hanno fatto registrare un nuovo picco di irresponsabilità nella loro già disastrosa e caotica strategia siriana. La fornitura diretta del materiale bellico è stata decisa in seguito alla chiusura definitiva del fallimentare programma di addestramento di introvabili combattenti “moderati” e, soprattutto, rappresenta una rischiosissima risposta al crescente impegno militare della Russia nel conflitto in corso in Siria.

A confermare il lancio delle armi è stato lunedì un portavoce del Pentagono, il quale ha assicurato che i beneficiari sarebbero “gruppi arabi siriani” i cui leader sono stati “debitamente verificati” dagli Stati Uniti.

Il Dipartimento della Difesa non ha però rivelato l’identità di queste formazioni ribelli, anche se i media americani hanno parlato di una “Coalizione Araba Siriana”. Questa denominazione è stata probabilmente ideata dal Pentagono per raggruppare varie formazioni a cui destinare gli armamenti.

Fonti governative e dei militari USA sono intervenute sui media d’oltreoceano per garantire che le armi paracadutate hanno raggiunto “forze amiche”. Il gruppo in questione sarebbe composto da 4 o 5 mila uomini che stanno combattendo contro lo Stato Islamico (ISIS) nei pressi di Raqqa, città nel nord della Siria ritenuta la capitale del “califfato”.

Il materiale sembrerebbe provenire dai depositi allestiti in paesi come Turchia e Giordania e che dovevano servire a dotare di armi i combattenti addestrati dagli americani nell’ambito del programma da poco abbandonato.

Al di là delle poco utili rassicurazioni dei vertici militari americani, il lancio di tonnellate di armi nel bel mezzo di una zona di guerra chiarisce a sufficienza il livello di disperazione raggiunto dal governo americano con l’avvio della campagna russa. L’intervento di Mosca per sostenere Assad ha spinto l’amministrazione Obama ad attivarsi per cercare di salvare le forze ribelli che da oltre quattro anni operano come forza d’urto per rovesciare il regime di Damasco.

Soprattutto, l’azione russa ha smascherato la natura delle formazioni su cui contano gli Stati Uniti e i loro alleati in Medio Oriente. Nonostante la pretesa di armare soltanto ribelli “moderati”, filo-occidentali e passati al vaglio della CIA o del Pentagono, i gruppi che Washington afferma di appoggiare sono virtualmente indistinguibili da quelli con inclinazioni fondamentaliste violente.

Anche per questa ragione, le armi appena lanciate finiranno con ogni probabilità nelle mani della filiale di al-Qaeda in Siria – il Fronte al-Nusra – se non dell’ISIS. Questa stessa fine aveva fatto d’altra parte il materiale che era stato fornito alla manciata di combattenti addestrati dagli americani e inviati in Siria prima dello stop definitivo al già ricordato programma.

La conferma del fatto che la linea di demarcazione tra i terroristi e i ribelli “moderati” in Siria sia a dir poco confusa viene anche dalla giustificazione principale fornita da Washington per la stessa cancellazione del programma di addestramento.

Secondo il Pentagono, infatti, non è stato praticamente possibile reperire uomini disposti a combattere soltanto contro le forze dell’ISIS e non contro quelle del regime, proprio perché per la grandissima maggioranza dei combattenti che si trovano in Siria il nemico non è rappresentato dal delirio jihadista di al-Baghdadi, bensì da un governo sciita alleato di Iran e Hezbollah.

Un articolo fondamentalmente di propaganda pubblicato martedì dal New York Times per sottolineare la pericolosità di uno scenario siriano caratterizzato sempre più da una guerra a distanza tra USA e Russia, è apparso in questo senso particolarmente illuminante.

Grazie anche alle testimonianze di vari comandanti delle formazioni che hanno ricevuto le armi americane qualche giorno fa, risulta evidente come sul campo non ci siano troppe distinzioni tra “moderati” ed estremisti.

Il Times spiega come la minaccia immediata al regime di Assad venga soprattutto da una “coalizione di insorti islamisti chiamata Esercito della Conquista”, all’interno del quale spicca il Fronte al-Nusra. A fianco di questo gruppo, continua il pezzo del giornale newyorchese, e “talvolta in aiuto” a esso, figurano “svariati gruppi relativamente secolari, come il Libero Esercito della Siria che… ha avuto accesso ai TOW [missili anticarro]” americani.

Lo stesso articolo spiega poi che i TOW e altre armi americane hanno svolto un ruolo decisivo nel mettere in crisi Assad, ammettendo però che la nuova forza di fuoco a disposizione dei ribelli ha favorito anche il Fronte al-Nusra, emanazione diretta di un organizzazione terroristica che il governo USA da quattordici anni dipinge come il nemico giurato della civiltà occidentale.

Il New York Times cerca di dipingere questi sviluppi come un effetto collaterale trascurabile e non desiderato dal governo USA, mentre si tratta in realtà di una politica deliberata portata avanti in maniera più o meno clandestina per colpire il regime siriano. Ciò è confermato anche dagli avvertimenti lanciati alla Russia affinché nei raid aerei decisi dal presidente Putin non vengano colpite formazioni “diverse dall’ISIS”.

Allo stesso modo, profondamente disonesti sono i tentativi di descrivere come “scomodo” o di convenienza il matrimonio tra l’Esercito Libero della Siria e l’ala qaedista in Siria, resosi necessario dall’impossibilità del primo di operare “senza il consenso” della seconda. Praticamente tutti i gruppi che combattono in Siria contro Assad sposano, con varie sfumature, un’agenda settaria sunnita e non sembrano in particolare imbarazzo nel collaborare con milizie apertamente terroristiche. Quando sono stati registrati scontri interni ai ribelli sono stati dovuti quasi sempre a contese territoriali o per risorse da sfruttare.

Negli ultimi giorni, intanto, grazie al supporto aereo russo, l’esercito regolare siriano ha fatto segnare progressi in varie parti del paese in mano ai gruppi fondamentalisti, tra cui alcuni appoggiati direttamente dall’Occidente. Sul piano diplomatico, invece, l’inviato speciale dell’ONU per la Siria, Staffan de Mistura, si prepara a incontrare i leader di Russia e Stati Uniti per cercare di intavolare un negoziato che porti a una soluzione politica del conflitto.

La distanza che rimane tra le due posizioni in merito alla sorte di Assad e, più in generale, all’orientamento strategico dell’eventuale regime che dovrà sostituire quello attuale al potere a Damasco non promette però nulla di buono per la Siria.

L’intensificarsi del conflitto e l’aumento dell’impegno militare delle due potenze rischia infatti seriamente di trascinare entrambe in un pericoloso vortice che potrebbe finire per mettere di fronte direttamente le forze di Mosca e Washington, con conseguenze prevedibilmente disastrose non solo per la Siria e il Medio Oriente.

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