di Michele Paris

Migliaia di lavoratori delle raffinerie di petrolio americane sono in sciopero da ormai dieci giorni nell’ambito delle trattative per il rinnovo del contratto nazionale, scaduto il primo febbraio scorso. La mobilitazione in questo settore cruciale è la prima negli Stati Uniti dal 1980 e, nonostante i tentativi di contenerla messi in atto dal sindacato del settore siderurgico (United Steelworkers, USW), si sta allargando in maniera relativamente rapida nelle decine di impianti sparsi per il paese.

A tutt’oggi risultano in sciopero più di 5 mila lavoratori in 11 delle 63 raffinerie che operano sul suolo americano. Le trattative sono affidate ai rappresentanti dello USW e della dirigenza di Royal Dutch Shell, a sua volta in rappresentanza dell’intera industria petrolifera che gestisce le raffinerie USA.

Le discussioni erano iniziate il 21 gennaio e non hanno dato finora alcun risultato per i 30 mila lavoratori interessati e costretti a fare i conti non solo con stipendi sempre meno pesanti e costi per pensione e assistenza sanitaria sempre più gravosi, ma anche con rischi estremamente elevati nello svolgimento delle loro mansioni.

Lo USW, nell’avviare lo sciopero, aveva deliberatamente limitato la protesta a nove raffinerie negli stati di California, Kentucky, Texas e Washington. La linea dura mantenuta da Shell ha però determinato la chiusura di altri due impianti nel fine settimana: quelli della BP a Whiting, nell’Indiana, e della stessa BP e di Husky Energy a Toledo, nell’Ohio.

In un altro tentativo di bloccare una mobilitazione generale, il sindacato ha inoltre dichiarato ufficialmente che le richieste avanzate non riguardano l’aspetto economico – per il quale avrebbero di cui lamentarsi praticamente tutti i lavoratori americani – bensì soltanto questioni legate alla sicurezza e alle condizioni di lavoro.

Finora, nonostante le dichiarazioni di disponiblità dell’industria petrolifera, non sembrano esserci state concessioni significative ai lavoratori. Anzi, Shell e le altre compagnie intendono utilizzare il rinnovo del contratto per ottenere ulteriori tagli del costo del lavoro.

Nel 2014, le cinque principali compagnie petrolifere - BP, Chevron, ConocoPhillips, ExxonMobil e Shell - hanno registrato complessivamente quasi 90 miliardi di profitti, di cui la gran parte sono finiti nel pagamento di dividendi agli azionisti o nel riacquisto di azioni proprie. Il crollo del prezzo del greggio non ha inoltre penalizzato le compagnie, visto che la nuova realtà ha permesso di aumentare i loro margini di profitto sulle operazioni di raffinamento.

La mobilitazione dei lavoratori americani in questo settore è stata seguita finora in maniera approssimativa dai principali giornali americani, ma la classe dirigente d’oltreoceano vede lo sciopero in atto con una certa preoccupazione.

Il solo fatto che l’ultima azione dei dipendenti delle raffinerie di petrolio sia stata messa in atto ben 35 anni fa testimonia delle tensioni sociali sempre più difficili da soffocare, sia pure in presenza di sindacati che cercano in tutti i modi di isolare le proteste dei lavoratori.

La stessa decisione dello USW di limitare lo sciopero a pochi impianti è il sintomo di come il sindacato non intenda esercitare particolari pressioni sulle compagnie petrolifere. Infatti, il livello attuale di mobilitazione comporta la perdita di appena il 13% delle capacità di raffinazione degli impianti americani, mentre la chiusura di tutti e 63 gli impianti determinerebbe un calo pari ai due terzi del totale. Nel 1980, lo sciopero in questo settore coinvolse 60 mila lavoratori e durò 14 settimane, prima di chiudersi con l’ottenimento di un aumento delle retribuzioni di oltre il 30%.

Azioni simili sono oggi bloccate principalmente dai sindacati per una ragione che ha a che fare con il ruolo che essi stessi sono ormai chiamati a svolgere, ovvero far digerire ai lavoratori i diktat dei vertici aziendali.

Se gli scioperi, che pure negli ultimi anni sono tornati ad animare la società americana, fossero accompagnati da una mobilitazione generale dei lavoratori dei vari settori industriali per riconquistare i diritti e il potere d’acquisto persi in tre decenni di sconfitte, i sindacati nella loro attuale forma non potrebbero che essere messi totalmente in discussione.

Il sistema preferito dai sindacati USA per soffocare le proteste dei lavoratori è quello di incanalarle in un’azione sterile subordinata al Partito Democratico. Non a caso, perciò, la Casa Bianca qualche giorno fa era intervenuta sullo sciopero nelle raffinerie, facendo appello alle compagnie e allo USW per implementare il “metodo ben testato della contrattazione collettiva” e porre fine alla mobilitazione.

Le compagnie petrolifere, in sostanza, dovrebbero fare alcune trascurabili concessioni ai lavoratori, così che il sindacato possa presentare il negoziato come una vittoria e terminare lo sciopero. Una radicalizzazione della protesta rischierebbe infatti di rinvigorire non solo le altre decine di migliaia di lavoratori delle raffinerie paralizzati dai sindacati, ma anche quelli di altri settori dell’industria, a cominciare da quello automobilistico, visto che la prossima estate scadrà il contratto collettivo di quasi 140 mila lavoratori di Chrysler, Ford e General Motors.

L’appoggio dell’amministrazione Obama allo USW e alla stipula del nuovo contratto nelle raffinerie suona comunque come un avvertimento per i lavoratori americani. Infatti, il presidente democratico ha favorito fin dal 2009 politiche di impoverimento di questi ultimi nell’ambito di una strategia volta a rendere competitiva l’industria USA e a convincere le grandi aziende a investire nuovamente nel settore manifatturiero del paese.

La Casa Bianca ha infine precedenti poco incoraggianti sul fronte dei rapporti con l’industria petrolifera. Ad esempio, solo l’anno scorso il governo americano aveva chiuso senza nessuna incriminazione le indagini sulla gravissima esplosione che nel 2010 costò la vita a 7 operai della raffineria di Anacortes, nello stato di Washington, di proprietà della compagnia texana Tesoro.

Proprio il problema del mancato rispetto delle norme di sicurezza sul lavoro, fortemente sentito nei pericolosi impianti di raffinazione, si è poi aggravato negli ultimi anni, dopo che i tagli alla spesa pubblica sotto la supervisione di Obama hanno causato la drastica riduzione del personale della Occupational Safety and Health Administration (OSHA), cioè l’agenzia federale incaricata di eseguire gli ormai sempre più sporadici controlli sul campo.

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