di Mario Lombardo

Da oltre una settimana, la Cina e il Vietnam sono nel pieno di un’accesa disputa attorno al posizionamento di una piattaforma petrolifera nel Mar Cinese Meridionale da parte di Pechino. Il nuovo scontro non solo retorico in Asia orientale rientra nel quadro delle contese territoriali riaccese dal riposizionamento degli Stati Uniti in questa parte del globo e che stanno pericolosamente mettendo di fronte Pechino a svariati paesi vicini, la cui crescente aggressività continua ad essere incoraggiata proprio dalle necessità strategiche di Washington.

A inizio mese le autorità cinesi avevano installato la piattaforma in un’area vicina alle isole Paracel (Xisha in cinese), controllate da Pechino ma rivendicate dal Vietnam. L’azione aveva subito provocato la replica di Hanoi, il cui governo nei giorni scorsi ha inviato nella zona alcune imbarcazioni della propria Guardia Costiera, accolte però da navi cinesi con cannoni ad acqua.

Nella giornata di lunedì, il governo vietnamita ha nuovamente accusato la Cina di avere respinto con gli stessi metodi una motovedetta che, a sua volta, secondo i media locali avrebbe risposto anch’essa con l’uso di cannoni ad acqua.

Secondo Hanoi, le attività di trivellazione avviate dalla Cina sono illegali, poiché la piattaforma in questione si troverebbe nella cosiddetta “zona economica esclusiva” del Vietnam, fissata dalle norme internazionali a 200 miglia al largo delle coste di un determinato paese.

Pechino, al contrario, respinge categoricamente una simile interpretazione e sostiene che la Cina ha l’assoluta sovranità sulla zona in cui si trova la piattaforma, essendo ad appena una trentina di chilometri al largo delle isole Paracel che essa controlla fin dal 1974.

Pechino ha poi denunciato la marina vietnamita per avere inviato nell’area di crisi 35 imbarcazioni che hanno speronato navi cinesi in almeno 171 occasioni tra il 3 e il 7 di maggio. Nel corso degli ultimi dieci anni, inoltre, la Cina ha già condotto attività esplorative nei pressi delle isole contese e il recente posizionamento della piattaforma petrolifera sarebbe un’operazione non differente dalle precedenti.

Il Vietnam, in ogni caso, non ha lesinato iniziative che hanno fatto aumentare le tensioni. Per cominciare, nel fine settimana il regime ha autorizzato alcune dimostrazioni di fronte alle sedi diplomatiche cinesi per denunciare la presunta aggressione di Pechino. Già nel 2011, Hanoi permise proteste simili in occasione di un altro scontro tra i due paesi vicini, per poi disperderle senza troppi complimenti quando stavano per trasformarsi in una rara occasione per esprimere il malcontento popolare nei confronti del governo.

Il primo ministro vietnamita, Nguyen Tan Dung, ha poi avuto parole molto dure per la Cina, accusata di essersi macchiata di “serie e pericolose violazioni” nell’ambito delle dispute, mettendo a rischio “la pace, la stabilità e la sicurezza” nella regione.

Il messaggio di Dung è stato indirizzato in particolare ai dieci membri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico riuniti nella giornata di domenica in Myanmar. Qui, il premier del Vietnam ha cercato di raccogliere il supporto di qualche governo - alcuni dei quali coinvolti anch’essi in contese territoriali con Pechino - ma senza troppo successo.

I leader del gruppo non hanno infatti menzionato esplicitamente la Cina nel loro comunicato ufficiale al termine del vertice, limitandosi ad esprimere “gravi preoccupazioni in merito agli sviluppi in corso nel Mar Cinese Meridionale”.

L’ASEAN, d’altra parte, continua a trattare con estrema cautela le dispute riesplose in questi anni, principalmente perché la Cina è il principale partner commerciale di praticamente tutti i paesi membri, nonché stretto alleato di alcuni di essi (Cambogia e Laos). Altri invece, come le Filippine, auspicherebbero una risposta più forte alle “provocazioni” cinesi, in linea con i tentativi favoriti da Washington di aprire un negoziato multilaterale per la risoluzione delle contese territoriali.

Nonostante la posizione neutrale ufficialmente sostenuta dall’amministrazione Obama, gli USA hanno più volte segnalato la loro intenzione di appoggiare tutti i rivali di Pechino nelle varie dispute. Ciò è stato confermato anche in questa occasione, visto che in una telefonata avvenuta lunedì, il segretario di Stato John Kerry ha comunicato alla sua controparte cinese che il posizionamento della piattaforma petrolifera in acque contese con il Vietnam è stata una mossa “provocatoria”, ribadendo poi che lo scontro dovrebbe essere risolto “con mezzi pacifici e in accordo con il diritto internazionale”.

Il ministero degli Esteri di Pechino ha replicato che nel Mar Cinese Meridionale ci sono state indubbiamente delle operazioni provocatorie ma non da parte cinese, per poi puntare il dito contro gli Stati Uniti per avere nuovamente incitato comportamenti di questo genere.

Dal momento che il governo cinese non poteva non aspettarsi una qualche reazione da parte del Vietnam e degli stessi USA, è probabile che la decisione di collocare una piattaforma petrolifera in uno dei punti caldi nel Mar Cinese Meridionale sia stata una risposta studiata alla recente trasferta asiatica del presidente Obama.

L’inquilino della Casa Bianca, pur cercando di smorzare i toni della rivalità con Pechino, aveva di fatto appoggiato tutte le rivendicazioni territoriali dei paesi visitati (Giappone, Filippine), promettendo a Tokyo di intervenire anche militarmente in caso di “aggressione” cinese nelle isole Senkaku nel Mar Cinese Orientale e siglando a Manila un trattato che garantisce la presenza nell’arcipelago di un contingente militare americano per almeno dieci anni.

Quest’ultimo accordo e altre iniziative statunitensi in Asia Orientale in concerto con i propri alleati possono avere anche spinto la Cina a mettere in atto una manovra - come quella in corso al largo delle isole Paracel - volta a spezzare l’accerchiamento e a ribadire agli occhi della comunità internazionale la volontà di non rendere conto a nessuno in merito alle decisioni su territori considerati sotto la propria sovranità, sia pure rivendicati da altri paesi.

La fermezza della risposta di Hanoi potrebbe però avere relativamente sorpreso le autorità cinesi, visto che i due paesi negli ultimi anni avevano fatto passi importanti sulla via della risoluzione delle dispute territoriali. Nel 2011 e ancora nel 2013, ad esempio, Cina e Vietnam avevano sottoscritto bozze di accordo per avviare colloqui distensivi ed evitare pericolosi scontri.

Più in generale, i due vicini avevano visto migliorare i rapporti bilaterali, come aveva confermato un’intesa sulla fissazione dei confini e dei diritti marittimi nel Golfo del Tonchino, ma anche la decisione di studiare modalità per sfruttare congiuntamente le risorse energetiche della regione in seguito alla visita in Vietnam a fine 2013 del premier cinese, Li Keqiang.

Il confronto in corso con Hanoi assume comunque contorni ancora più allarmanti non solo perché è stato sfruttato nuovamente dagli Stati Uniti per esercitare pressioni su Pechino, ma anche perché si aggiunge ad un nuovo motivo di scontro con le Filippine. Sempre settimana scorsa, infatti, le autorità del paese-arcipelago avevano fermato un peschereccio cinese e arrestato il suo equipaggio nelle isole Spratly, rivendicate dalla Cina e dalle Filippine oltre che da Brunei, Malaysia, Taiwan e Vietnam.

L’imbarcazione cinese è stata sequestrata con la scusa che l’equipaggio aveva a bordo un certo numero di tartarughe protette, anche se a molti l’operazione del governo del presidente filippino Benigno Aquino è apparsa come l’ennesima provocazione di Manila nei confronti di Pechino, possibilmente orchestrata durante la recente visita di Obama.

Il differente approccio alle dispute territoriali in Estremo Oriente dei media occidentali, degli Stati Uniti e dei paesi alleati di questi ultimi risulta in ogni caso evidente dal fatto che azioni simili a quella intrapresa settimana scorsa dalla Cina nelle isole Paracel da parte di Giappone, Filippine o Vietnam passano puntualmente sotto silenzio e, come è ovvio, non vengono condannate se non da Pechino.

Così, infatti, nel 2012 il governo di Tokyo aveva “nazionalizzato” le isole Senkaku, rivendicate dalla Cina, dopo averle acquistate dai privati che ne detenevano la proprietà. Solo nel fine settimana scorso, poi, le Filippine hanno annunciato un’asta per la concessione di diritti per la trivellazione di una decina di pozzi petroliferi, tra cui uno situato in un’area del Mar Cinese Meridionale rivendicata da Pechino.

Ugualmente contese da Pechino sono infine le acque nelle quali proprio il Vietnam ai primi di maggio ha offerto alla compagnia petrolifera indiana ONGC Videsh (OVL) altre due aree da trivellare, in aggiunta alle cinque già proposte lo scorso mese di novembre.

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