Discorso dinanzi all'aula del Senato americano
13 settembre 2006
Signor Presidente,
un altro 11 settembre è passato, e mentre ancora ricordiamo coloro che
sono morti in quel giorno fatale e contempliamo gli eventi accaduti dopo quegli
orribili attacchi, sicuramente almeno una cosa ora è chiara a tutti.
La guerra in Iraq è stata un errore, ha prodotto più reclute per
il terrorismo internazionale e profonde divisioni all'interno del nostro stesso
Paese. Questa guerra non avrebbe mai dovuto iniziare. La strada che abbiamo
intrapreso dal nostro attacco contro Bin Laden ed i suoi sostenitori, nascosti
nelle rocciose e desertiche caverne dell'Afghanistan, al disastroso e non provocato
attacco contro l'Iraq, è stata una strada disastrosa. La guerra voluta
da Bush ha danneggiato il nostro Paese perché ha portato il nostro Paese
a combattere una guerra non necessaria, valutando erroneamente le conseguenze
di questa scelta, con il risultato di aver oggi mostrato a tutti coloro che
vogliono il male dell'America quali sono le vulnerabilità del nostro
Paese. Gli Stati Uniti sono una potenza più debole non solo in Medio Oriente,
ma anche dinanzi all'opinione pubblica mondiale. Che fine ha fatto l'America
che una volta era l'ideale della pace e della libertà per milioni di
persone? Che fine ha fatto l'America che una volta era rispettata non solo per
la sua potenza militare, ma anche per la sua ideologia e per la sua ragionevole
diplomazia?
Il nostro Paese può aver deviato occasionalmente anche in passato dalla sua immagine positiva nel mondo, ma quello che è successo ad Abu Ghraib, i corpi sfigurati dalle torture, ciò che viene eufemisticamente chiamato "rendition" dei prigionieri, nonché le direttive presidenziali che hanno unilateralmente alterato le norme previste dalle Convenzioni di Ginevra - tutto questo non rappresenta una semplice deviazione da quella che era l'America della pace, della libertà e della buona volontà. Questo rappresenta piuttosto un cambio di attitudine e di politica di immani proporzioni, come un vero e proprio tsunami politico. I nostri amici sono ancora increduli. I nostri nemici invece sorridono e affermano di aver sempre pensato questo di noi. Io non riesco ad immaginare nessun momento nella nostra storia in cui un presidente eletto ha fallito così miseramente il proprio mandato, e nello stesso tempo ancora non è stato costretto a rendere conto dinanzi al popolo americano per i propri errori e per le proprie menzogne.
Prendiamo ad esempio il nostro segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld. Questa persona ha sbagliato tutto sull'Iraq. Ha candidamente rifiutato ogni suggerimento, provenutogli prima della guerra, per stanziare una forza di maggiori dimensioni in Iraq. Non ha detto una parola quando l'Autorità Provvisoria della Coalizione ha deciso di smantellare l'esercito iracheno, rendendo così gli ex soldati manovalanza per la guerriglia antiamericana. Ha sempre insistito sul fatto che gli uomini e le donne dell'Iraq ci avrebbero visto come liberatori e non come occupanti, ed ha persino fallito nel giudicare quali fossero gli equipaggiamenti necessari per le nostre donne ed i nostri uomini in servizio in Iraq.
Oggi il segretario Rumsfeld continua ad insistere che non ci troviamo di fronte ad una guerra civile in Iraq, sebbene sia chiaro a tutti il contrario. Nonostante questo egli siede ancora indisturbato nel suo ufficio mentre l'eco dei suoi errori di giudizio e di strategia continua a mietere migliaia di vittime innocenti.
Possiamo anche parlare del presidente Bush e del vicepresidente Dick Cheney. Questi uomini continuano a voler far credere al pubblico americano che la guerra in Iraq è parte della guerra contro il terrorismo, e che perciò deve essere continuata a tutti i costi. Non cambiamo direzione, essi dicono, nonostante che passati tre anni scoraggianti di progressi praticamente nulli in Iraq. La conta dei morti sta per raggiungere quota 2.700 per quanto riguarda gli americani e quantomeno decine di migliaia per quanto riguarda gli iracheni, e milioni di dollari dei contribuenti americani sono stati versati per questa avventura, la stragrande maggioranza dei quali è stata sprecata da irresponsabili "contractors" mentre il nostro governo è stato incapace di rendere conto della loro gestione. Molti dei nostri alleati hanno lasciato il terreno, riconoscendo quella verità che la nostra Amministrazione è incapace di vedere: abbiamo le armi per vincere la guerra, ma ci manca la capacità di assicurare la pace all'Iraq.
Nonostante questo, troppi americani ancora non si rendono pienamente conto delle numerose violazioni della loro fiducia e del massacro che continua ogni giorno in Iraq. Molti dei nostri compatrioti sono apparentemente convinti che non è patriottico criticare la politica del nostro Paese, quando siamo impegnati all'estero in conflitti armati. In effetti, ai nostri giorni, c'è troppa tolleranza per il comportamento del nostro governo sia in Patria che all'estero. Questa Amministrazione ha ripetutamente usato la paura e il nostro patriottismo per minare la nostra Carta dei Diritti, la libertà di pensiero personale, la nostra privacy ed il diritto di ognuno a dire ciò che pensa. Tale cinico esercizio da parte di alti ufficiali del nostro governo è completamente incosciente. E' un comportamento vergognoso che non ha alcuna scusa.
Il Congresso, sotto il controllo del partito del presidente, è stato completamente remissivo, come un cane che lecca la mano del suo padrone alla Casa Bianca e che si compiace della segretezza e delle menzogne. Ma anche la gran parte dei membri del partito all'opposizione sono stati silenti per troppo tempo, incapaci di trovare la propria voce, azzittiti dalla richiesta di "appoggiare le truppe". Abbiamo dimenticato, troppo spesso, che c'è una netta differenza tra appoggiare le truppe ed appoggiare una guerra non necessaria. Gli uomini e le donne che servono sotto le armi non hanno chiesto di andare a combattere in queste terre lontane, ma ne avevano la volontà. Hanno risposto alla chiamata al dovere del proprio Paese. Da parte nostra abbiamo l'obbligo di appoggiare la loro scelta, ma non dobbiamo seguire ciecamente le politiche di coloro che li hanno inviati a combattere nel mezzo di una guerra civile.
L'opinione pubblica americana è la nostra unica speranza rimasta ora. Il nostro popolo ha il dovere di chiedere di più ai suoi rappresentanti che siedono nel Congresso ed ai suoi leader che siedono alla Casa Bianca. Donald Rumsfeld dovrebbe essere licenziato dal presidente Bush a causa dei suoi gravissimi errori di valutazione sulla guerra in Iraq e perché una nuova voce al comando del Dipartimento della Difesa fornirebbe una boccata di aria fresca per la nostra politica in Iraq. Il suo licenziamento sarebbe indubbiamente una ottima notizia per il nostro Paese. Eppure un voto di "sfiducia" da parte del Senato nei confronti di Rumsfeld è stato bloccato dal partito del presidente. L'essere responsabili delle proprie scelte è un concetto che da tempo non fa parte di questa Amministrazione. A me, personalmente, piacerebbe rivedere questo concetto in auge.
Uno può sperare che gli uomini e le donne che arrivano a posizioni di responsabilità abbiano la grazia, la dignità e l'onore di sentire nel proprio cuore quando è il momento di dimettersi per mettere l'interesse della nazione dinanzi al proprio. Ma, troppo spesso, l'egoistico attaccamento al potere o una sorta di mal guidata dimostrazione di forza si pongono dinanzi all'interesse del Paese. Donald Rumsfeld ha il dovere di dimettersi o altrimenti il presidente ha il dovere di chiedergli di farlo. C'è troppo in ballo per poter accettare qualsiasi alternativa. Personalmente, ritengo che il presidente non compia il proprio dovere se non chiede a Rumsfeld di dimettersi. Le menzogne e i massacri collegati a questi tre tragici e lunghi anni di guerra hanno colpito al profondo il nostro Paese, la sua immagine nel mondo e la sua abilità nel raggiungere numerosi obiettivi nazionali ed internazionali. Questo tipo di pericolosa inettitudine non deve essere permessa a nessuno.
Ma, come molte altre cose riguardanti l'Iraq ed il Medio Oriente in generale, gli Stati Uniti d'America sembrano subire passivamente ciò che accade e l'unica cosa che sembra mostrare vigore è la spirale esplosiva dei prezzi del petrolio. Abbiamo destabilizzato il Medio Oriente, dato in mano ai mullah un modo reale di influenzare la vita giornaliera e lo stile di vita degli americani, e persino l'efficacia della nostra potenza militare - vale a dire il controllo delle linee di fornitura del petrolio dalle quali dipende la nostra economia ed il nostro esercito.
Ora gli oleodotti sono diventati il bersaglio preferito dei terroristi che hanno imparato con piacere come far saltare in aria gli impianti petroliferi, per poi ascoltare le lamentele degli americani sull'aumento del prezzo della benzina e sulla mancanza di fonti di energia alternative che non sono mai state sviluppate.
Ora, abbiamo passato un ulteriore anniversario degli attacchi sanguinosi che hanno precipitato il nostro Paese nella situazione disastrosa nella quale si trova ora. Per questo motivo, mentre ricordiamo i nostri morti, dobbiamo confrontarci con pesanti verità.
La nostra attenzione è stata sviata, con la menzogna, dalla guerra in Afghanistan - una guerra che avevamo davvero bisogno di combattere e vincere. Ora i talebani stanno riconquistando il Paese. Al Qaeda continua a considerare le montagne afgane come un santuario inaccessibile alle forze della coalizione. La violenza è in aumento, la pace e la stabilità sono a rischio.
La Corea del Nord, probabilmente reagendo alla nostra dottrina della guerra preventiva e alla nostra bellicosità, ha accresciuto la sua capacità nucleare. L'Iran è stato rafforzato dalla nostra incapacità di fermare la violenza in Iraq e dalla freddezza che abbiamo ricevuto dai nostri tradizionali alleati. Persino il popolo della Turchia, uno degli alleati più forti degli Stati Uniti visto che la Turchia è un membro della NATO, nonché un modello di democrazia laica tra i Paesi musulmani, ci ha voltato le spalle. Un sondaggio condotto dal Fondo Marshall degli Stati Uniti ha reso noto che l'Iran di Ahmadinejad è diventato uno dei Paesi più popolari in Turchia e c'è una crescente voglia di identificarsi con l'islam radicale. La dimostrazione di inettitudine e di spettacolare errore di calcolo di cui siamo stati colpevoli in Iraq, ci è già costata pesantemente. Inoltre a casa nostra stiamo rivivendo lo stesso incubo del Vietnam, con la presenza di un forte senso di disagio che si farà sentire ancora per anni.
Il presidente Bush ancora insiste che la guerra deve continuare. Il presidente difende il suo diritto di intercettare i nostri concittadini come necessario per la guerra al terrorismo, nonostante che una corte americana abbia già dichiarato queste intercettazioni incostituzionali. Il nostro presidente difende anche l'uso della tortura e il 'rendition' dei prigionieri ai servizi segreti di governi che usano la tortura abitualmente, come necessari per ottenere informazioni di valore dai prigionieri della guerra al terrorismo, che avrebbero permesso di evitare ulteriori attacchi contro il nostro Paese. Ma ormai la sua credibilità è talmente danneggiata che è difficile credergli. Il presidente richiede anche l'autorità per detenere senza limiti temporali persone sospettate di terrorismo, e quindi di giudicarle mediante tribunali militari che negano il diritto basilare di ogni persona alla propria difesa, così come affermato da una sentenza della Corte Suprema. Il presidente sembra convinto di poter "vincere" la guerra contro il terrorismo nonostante che le sue politiche unilaterali, il suo militarismo, la sua retorica stantia e il suo odio patologico nei confronti della diplomazia, si siano dimostrati fallimentari. E' dovere del Congresso cambiare politica e fermare il rovinoso tentativo di attacco contro le nostre libertà costituzionalmente garantite da parte di una Casa Bianca che palesemente non apprezza il vero significato della parola libertà. Spero che un giorno potremo trovare davvero il coraggio per farlo.
*Robert C. Byrd è un senatore democratico del West Virginia, nonché più volte potenziale candidato alla posizione di segretario di Stato americano nel caso di una vittoria democratica alle presidenziali
Traduzione di Daniele John Angrisani, in esclusiva per Altrenotizie