di Mario Lombardo

L’avanzata dell’esercito fedele al regime siriano di Bashar al-Assad in numerose località del paese mediorientale sta contribuendo ad aggravare le divisioni all’interno di un’opposizione armata alla quale l’Occidente sta cercando disperatamente di dare il proprio sostegno materiale per ribaltare le sorti del conflitto senza rafforzare le frange più estremiste.

Lo scivolamento verso uno scontro aperto tra le varie fazioni che compongono l’opposizione al regime è apparso evidente la scorsa settimana con l’assassinio nella provincia occidentale di Latakia di un comandante del cosiddetto Libero Esercito della Siria. L’uccisione di Kamal Hamami è stata opera di una milizia integralista legata ad Al-Qaeda, denominata Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS), in seguito ad una disputa con uno dei leader locali di quest’ultima.

Tra le varie motivazioni per l’accaduto riportare dai media, ci sarebbe una dichiarazione emessa dal Libero Esercito della Siria nella quale veniva affermato il rispetto delle minoranze alauita e cristiana nel paese. Alla base dello scontro tra bande rivali potrebbe però anche esserci il controllo dei posti di frontiera nel nord della Siria, da cui transitano armi e beni di prima necessità per la popolazione e che spesso i “ribelli” sfruttano per imporre pesanti tributi sul loro passaggio.

Solo poche ore dopo l’assassinio del comandante Hamami, scontri a fuoco tra gruppi armati anti-Assad sono esplosi anche ad Aleppo, in particolare nella località di Bustan al-Qasr, nuovamente a causa di dispute legate al controllo dei vari quartieri della città. L’impopolarità delle milizie è stata poi confermata da una sorta di rivolta andata in scena qualche giorno fa e che ha avuto come protagonisti alcuni abitanti della parte orientale di Aleppo. Questi ultimi hanno infatti contestato duramente le formazioni “ribelli” che impedivano il transito di cibo e medicinali destinati ai loro familiari che vivono nelle aree sotto il controllo del governo.

Questi ed altri scontri interni all’opposizione - come il bombardamento di un deposito di armi del Libero Esercito da parte dei jihadisti a Idlib nella giornata di sabato - indicano una più che probabile resa dei conti nel prossimo futuro tra le fazioni secolari più vicine all’Occidente e quelle di orientamento fondamentalista. Il quotidiano britannico Daily Telegraph, ad esempio, ha scritto che in seguito alla morte del comandante Hamami, il Libero Esercito della Siria starebbe preparando una ritorsione contro l’ISIS nella provincia di Latakia.

La crescente aggressività dei gruppi integralisti è stata in ogni caso sfruttata dai vertici dell’opposizione “moderata” per lanciare nuove suppliche all’Occidente e, in particolare, agli Stati Uniti per accelerare il promesso invio di armi pesanti, così da emarginare le formazioni fondamentaliste e provare a contrastare l’offensiva in corso in quasi tutto il paese da parte del regime.

Dopo avere ripreso il controllo della città di Qusayr al confine con il Libano nel mese di giugno, le forze di Assad sarebbero infatti ora sul punto di liberare Homs dalla presenza dei “ribelli”, mentre in questi giorni gli scontri si sono intensificati anche in alcuni quartieri di Damasco controllati dall’opposizione, tra cui quello di Qaboun. Sempre a Damasco, poi, un’autobomba fatta esplodere nei pressi di una stazione di polizia ha ucciso almeno 13 persone nella giornata di lunedì, allungando l’elenco delle vittime causate da attentati terroristici ad opera dei gruppi jihadisti.

Le difficoltà che stanno attraversando le fazioni “ribelli” sono apparse in ogni caso evidenti anche dalla persistente incapacità a formare quello che dovrebbe fungere da governo provvisorio a Damasco dopo l’eventuale caduta di Assad. Ciò viene da tempo richiesto dai loro sponsor in Occidente e in Medio Oriente, così da dare una parvenza di efficienza e unità ad un’opposizione che rimane al contrario profondamente divisa tra le varie correnti che la compongono.

Le divisioni sono peraltro la conseguenza non solo della loro sostanziale impopolarità tra la popolazione ma anche del conflitto tra i paesi che le sostengono e che operano per esercitare la maggiore influenza possibile in Siria.

A questo proposito, la recente elezione a capo della cosiddetta Coalizione Nazionale delle Forze della Rivoluzione Siriana e dell’Opposizione di Ahmed al-Jarba è stata universalmente considerata come una vittoria per l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti ai danni del Qatar, rafforzata oltretutto dalle successive dimissioni di colui che avrebbe dovuto fungere da primo ministro, Ghassan Hitto, personaggio al contrario vicino allo stesso emirato e ai Fratelli Musulmani.

Il rovescio patito dal Qatar nella competizione in corso per il dopo-Assad e l’installazione al vertice della Coalizione di un uomo di Riyadh sono legati con ogni probabilità anche al rovesciamento da parte dei militari del presidente islamista Mohamed Mursi in Egitto, anch’egli appoggiato da Doha, e suggeriscono forse un ripensamento generale della strategia dei governi occidentali, sempre più preoccupati per le conseguenze della loro politica irresponsabile che in due anni e mezzo ha fatto confluire in Siria decine di migliaia di guerriglieri integralisti che potrebbero addirittura finire per controllare un intero paese nel cuore del Medio Oriente.

Un qualche ripensamento sulla fornitura di armi ai “ribelli” è stato espresso così dal primo ministro britannico, David Cameron, il quale lunedì si sarebbe finalmente reso conto dei vari effetti collaterali che comporterebbe una scelta simile. In primo luogo, hanno riportato i giornali del Regno Unito, Cameron ha riconosciuto il rischio concreto - per non dire la certezza - che le armi finirebbero nella mani delle formazioni jihadiste attive in Siria. Inoltre, senza probabilmente incidere sulle sorti del conflitto, la decisione coinvolgerebbe Londra in una vera e propria guerra, facendo aumentare sensibilmente il rischio per la sicurezza del paese.

Sulla frenata di Cameron potrebbe avere influito non solo la resistenza della Camera dei Comuni di Londra ad approvare una misura che consenta al governo di inviare armi all’opposizione anti-Assad ma forse anche una notizia diffusa qualche giorno fa dalla Reuters che ha rivelato la presenza in Siria di centinaia di talebani pakistani (Tehrik-i-Taliban), impegnati a combattere a fianco dei “ribelli” sostenuti dall’Occidente.

Anche negli Stati Uniti sembra regnare l’incertezza, visto che l’annuncio del mese scorso del presidente Obama di inviare armi ai “ribelli” è rimasto per ora senza seguito a causa delle perplessità di molti membri del Congresso a Washington, i quali continuano ad impedire lo sblocco delle forniture destinate all’opposizione siriana.

Un articolo del Wall Street Journal di domenica scorsa ha anche rivelato come un gruppo di consulenti legali dell’amministrazione Obama abbia messo in guardia il presidente dalla possibile violazione del diritto internazionale se si dovesse dare il via libera alla spedizione di armi all’opposizione siriana. Una tale eventualità, commenta il quotidiano newyorchese, potrebbe addirittura legittimare una reazione di Assad nei confronti degli Stati Uniti.

Il via libera alle armi, infatti, dovrebbe avvenire senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU - dove Cina e Russia continueranno a porre il veto ad ogni risoluzione che apra la strada ad un intervento esterno in Siria - e metterebbe gli USA in una posizione legalmente ingiustificabile, vale a dire di sostenitori materiali di una parte coinvolta in una guerra civile in un paese estero.

Un tale scenario finirebbe per produrre una situazione paradossale rispetto ai principi che ufficialmente ispirano le azioni di Washington, mettendo cioè gli Stati Uniti fuori legge e legittimando invece un’eventuale ritorsione armata di Assad contro obiettivi americani.

Che una mossa di questo genere possa risultare contraria al diritto internazionale non comporta comunque l’abbandono di essa da parte americana. A Washington, anzi, sono in corso da tempo manovre pseudo-legali per fare apparire legittima non solo la decisione di fornire armi all’opposizione in Siria ma anche quella di imporre una fly-zone sul paese mediorientale o di sferrare attacchi aerei e bombardamenti mirati contro le difese del regime di Assad.

La volontà degli USA di rispettare le norme del diritto internazionale è d’altra parte risaputa, così come lo è quella di Israele, le cui forze sottomarine lo scorso 5 luglio hanno per l’ennesima volta agito al di fuori di ogni giustificazione legale lanciando un nuovo attacco contro un obiettivo in territorio siriano, ormai il quarto dall’inizio dell’anno.

A rivelarlo sono state fonti governative americane e britanniche, le quali hanno confermato come Tel Aviv - in assenza di qualsiasi provocazione dalla Siria - abbia colpito un deposito di missili anti-nave di fabbricazione russa in dotazione del regime di Damasco e conservato nella città costiera di Latakia.

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