di Michele Paris

Le elezioni anticipate andate in scena martedì in Israele e fortemente volute da Benyamin Netanyahu si sono risolte, nonostante l’obiettivo minimo raggiunto di conquistare un terzo mandato alla guida del governo, in un imprevisto e umiliante rovescio per il primo ministro conservatore. L’alleanza di destra tra il Likud e Israel Beiteinu ha infatti registrato la perdita di una decina di seggi rispetto al 2009, mentre il sostanziale equilibrio che si prospetta tra i due blocchi contrapposti in parlamento (Knesset), contraddistinti peraltro da sensibili differenze anche al loro interno, potrebbe complicare non poco il tentativo di Netanyahu di mettere assieme una stabile coalizione di governo.

Lo scioglimento della legislatura era stato deciso dallo stesso premier lo scorso mese di ottobre in seguito all’impossibilità di trovare un accordo all’interno della sua maggioranza sul bilancio per il 2013. Ad ostacolare l’adozione di misure volte a ridurre il deficit tramite pesanti tagli alla spesa pubblica erano stati in particolare i partiti ultra-ortodossi, il cui elettorato appartiene alle fasce più disagiate del paese e che fa appunto ampio affidamento sull’assistenza dello stato.

Il calcolo di Netanyahu era quello di ottenere in fretta un nuovo solido mandato elettorale per implementare misure di austerity senza dovere scendere a compromessi con la destra religiosa, presentando perciò una lista unica con il partito dell’ex ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman. La sicurezza di un netto successo del primo ministro, anche grazie a partiti di opposizione appena nati o moribondi, era tale che il Likud non aveva nemmeno approvato una piattaforma programmatica per la campagna elettorale.

Con i media israeliani e occidentali impegnati da settimane a dipingere un elettorato sempre più spostato a destra, una nettissima vittoria del Likud e di Israel Beiteinu appariva perciò scontata. La sicurezza di Netanyahu ha finito però per svanire, tanto che, prima della chiusura delle urne, il premier israeliano ha addirittura sentito la necessità di lanciare un appello allarmato su Facebook ai sostenitori del Likud, invitandoli ad andare a votare “per il bene del paese”.

I risultati pressoché definitivi hanno attribuito a Likud e Israel Beiteinu 31 seggi sui 120 totali in palio, contro i 42 che i due partiti controllavano nella precedente Knesset e ben al di sotto di quanti erano stati loro attribuiti alla vigilia del voto. A penalizzare la destra israeliana è stata soprattutto l’elevata affluenza, che ha sfiorato il 67%, sintomo di una diffusa ostilità nei confronti dei partiti di governo, sia per le politiche economiche messe in atto in questi anni che per le posizioni relative alla questione palestinese e alla presunta minaccia del nucleare iraniano.

A sorpresa, del voto di protesta ha beneficiato soprattutto il partito di centro Yesh Atid (“C’è un Futuro”), fondato solo lo scorso anno dal noto giornalista televisivo Yair Lapid, figlio di un ex ministro della Giustizia israeliano. Oltre a sfruttare la popolarità del proprio leader, Yesh Atid ha saputo capitalizzare in qualche modo il malcontento della società israeliana, facendosi portavoce di una classe media in affanno e combinando un messaggio populista con posizioni relativamente moderate sul processo di pace con i palestinesi.

Con 19 seggi conquistati, Yesh Atid è diventato il secondo partito in Parlamento e viene ora descritto come uno dei candidati ad entrare nel nuovo governo Netanyahu. Quest’ultima ipotesi è infatti già stata discussa dai leader dei due partiti, anche se una coalizione con Lapid comporterebbe più di un attrito con gli alleati di estrema destra del Likud, sia sulla questione palestinese sia attorno ai benefici garantiti dallo stato agli ultra-ortodossi, producendo una maggioranza alquanto instabile.

Alla destra del Likud ha fatto segnare un discreto risultato, anche se inferiore alle aspettative, il partito Habayit Hayehudi (“Focolare Ebraico”), guidato dall’imprenditore di origine americana ed ex capo di gabinetto di Netanyahu, Naftali Bennett. Questo movimento di estrema destra e il suo leader avevano occupato gran parte delle cronache giornalistiche durante la campagna elettorale, anche se gli 11 seggi ottenuti appaiono in buona parte il risultato dell’emorragia di consensi per il Likud, in particolare tra l’elettorato religioso non fondamentalista che vede con sospetto il secolarismo del partito di Lieberman. Bennet, in ogni caso, si oppone apertamente alla creazione di due stati per risolvere la questione palestinese e propone l’annessione del 60% della Cisgiordania, così che, appunto, una coesistenza del suo partito con il centrista Lapid appare problematica.

Quella che secondo alcuni commentatori sarà una necessità per Netanyahu di guardare al centro per formare il suo nuovo governo, al contrario di quanto auspicava dopo avere sciolto il Parlamento, potrebbe far considerare al premier un’alleanza con altre due formazioni moderate, come Kadima e Hatnuah (“Il Movimento”). Il risultato di questi due partiti è stato però tutt’altro che entusiasmante e anche un eventuale accordo con entrambi obbligherebbe Netanyahu a fare comunque affidamento almeno su un altro partner alla propria destra.

Kadima, in particolare, ha raccolto appena due seggi dopo che nelle elezioni del 2009 era risultato il primo partito della Knesset con 28. Screditato da una breve esperienza nel governo Netanyahu la scorsa primavera, Kadima aveva successivamente assistito anche alla defezione di uno dei suoi membri più autorevoli, l’ex ministro degli Esteri, Tzipi Livni, la quale con il suo nuovo partito, Hatnuah, martedì ha ottenuto 6 seggi.

L’avversione per l’attuale governo ha prodotto poi qualche beneficio anche a sinistra. Il Partito Laburista ha fatto segnare un modesto incremento della propria rappresentanza in Parlamento (da 13 a 15 seggi), mentre il social-democratico Meretz è passato da 3 a 6. Infine, rimangono come al solito fuori da ogni calcolo politico i partiti che rappresentano una popolazione araba-israeliana sempre più alienata all’interno dello stato ebraico. Tre formazioni che fanno riferimento a questa fetta di elettorato si spartiranno un totale di 12 seggi.

Il brusco risveglio di Netanyahu lo costringerà così a fare i conti con un elettorato israeliano spostato decisamente a sinistra, a dispetto di una classe politica orientata sempre più a destra di fronte all’inasprirsi delle difficoltà economiche interne e all’aumento delle tensioni nella regione mediorientale. Una realtà che finirà con ogni probabilità per pesare in maniera significativa su un nuovo esecutivo che, qualsiasi sarà la sua composizione, si preannuncia estremamente instabile.

Oltre alle difficili scelte di politica economica che Netanyahu sarà chiamato a mettere in atto in un paese già segnato da elevatissimi livelli di povertà e disuguaglianze sociali, a pesare sul futuro del governo saranno soprattutto il moribondo processo di pace con i palestinesi, il nucleare iraniano e la crisi in Siria, tutte questioni che si incroceranno con i rapporti con gli Stati Uniti. Una relazione quella con il principale alleato di Tel Aviv che sarà in parte da ricostruire, alla luce delle frequenti incomprensioni del recente passato e dell’attitudine teoricamente meno servile verso Israele mostrata dalle forze nuove volute dal presidente Obama per guidare il Pentagono e il Dipartimento di Stato.

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