di Carlo Musilli

Le novità che arrivano dai vertici internazionali degli ultimi giorni vanno lette fra le righe, nei rapporti di forza fra i leader seduti intorno al tavolo. Il vero dato politico che ci consegna questa settimana di colloqui - dal G8 dello scorso weekend alla "cena informale" dello scorso mercoledì sera a Bruxelles - è l'inusitato isolamento di Angela Merkel. Abituata fin qui a dettare l'agenda della politica economica europea, la cancelliera tedesca ora deve adattarsi a uno scacchiere rivoluzionato rispetto al passato. L'alleanza di ferro all'insegna del rigore con lo sherpa Nicolas Sarkozy è venuta meno: adesso frau Merkel si ritrova a fare i conti con il nuovo presidente francese, il socialista François Hollande, che fin dalla campagna elettorale non ha fatto che sbandierare la parolina magica, "crescita".

Sul palcoscenico globale, è proprio il successore di Mitterrand ad avere gli appoggi che contano: sia il presidente degli Usa, Barack Obama, sia il numero uno del Consiglio Ue, Herman Van Rompuy, vogliono servirsi del nuovo asse con Parigi per accerchiare la Merkel e costringerla ad allentare i lacci dell'austerity. Su questo campo non è secondaria la mediazione del premier italiano, Mario Monti, così come l'opposizione interna dei socialdemocratici tedeschi, pronti a usare il nuovo isolamento internazionale della Germania come un'arma elettorale contro Merkel.

Di provvedimenti concreti per rilanciare l'economia, com'era prevedibile, ancora nessuna traccia. Eppure la discussione fra i potenti d'Europa si è finalmente spostata su un argomento fino ad oggi tabù: gli eurobond (che pure non hanno a che fare con la crescita, ma con la stabilità finanziaria). Il duopolio Merkozy aveva sempre rifiutato anche solo di trattare questo capitolo in sede ufficiale. Oggi invece se ne parla, ed è già un passo avanti.

Perfino il bastian contrario per eccellenza, il premier inglese David Cameron, si è detto favorevole. Monti si è sbilanciato affermando che non manca "moltissimo tempo" all'adozione dei nuovi strumenti. La verità è che per il momento non c'è alcun accordo e di sicuro il via libera alle obbligazioni comunitarie non arriverà dal vertice europeo (stavolta "formale") del mese prossimo.

Per quanto controverso e probabilmente non decisivo, al momento questo tema mette in luce più di ogni altro la solitudine di Angela. La Germania ha sempre combattuto gli eurobond come il peggior nemico. E la ragione è facilmente comprensibile: i titoli emessi a livello comunitario obbligherebbero la prima economia d'Europa a garantire in parte anche il debito di Paesi inaffidabili sul piano dei conti pubblici. Senza contare quelli che - come l'Italia - oggi sembrano aver imboccato la strada della redenzione, ma domani chissà?

I rigidi professori bocconiani - per continuare con l'esempio - non dureranno ancora a lungo e nessuno può dire se i loro successori saranno altrettanto zelanti nello svolgere i compitini a casa affidati da Bruxelles e Francoforte.

Insomma, fatti due conti, quella di Berlino è certamente l'economia che ha più da perdere. Anche perché oggi i titoli di Stato tedeschi, i Bund, sono trattati dal mercato alla stregua di un vero e proprio bene rifugio, al punto che gli interessi pagati dalla Germania per finanziare il proprio debito pubblico ormai rasentano lo zero. Il timore di Merkel è proprio che questa situazione possa cambiare con l'ingresso degli eurobond. Il vero problema della Germania è che su questo terreno il suo unico alleato superstite è "l'asse del nord" costituito da Olanda, Finlandia e Svezia. Non esattamente un'armata invincibile, anche se Hollande avrebbe preferito il completo isolamento della cancelliera.

D'altra parte, ci sono anche delle ragioni più tecniche a lasciare perplessi gli addetti ai lavori. Il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, ha sottolineato come l'emissione di eurobond abbia senso solo dopo la realizzazione di una "fiscal union" nell'eurozona. Quello che ancora manca è una vera "unione di bilanci", ha detto il governatore.

Intanto la Grecia, con le elezioni di giugno, è chiamata a una sorta di referendum per decidere se rimanere o no nella moneta unica (mentre tutti i Paesi, a dispetto delle smentite, stanno preparando piani per fronteggiare l'eventuale addio) e la Spagna deve vedersela con una tremenda crisi del settore bancario. Di fronte a questo scenario, dobbiamo purtroppo accontentarci dell'intesa al ribasso raggiunta fin qui fra i leader d'Europa.

Il mese prossimo sarà probabilmente avviato l'iter per due provvedimenti su cui ormai da tempo sono (quasi) tutti d'accordo: la ricapitalizzazione della Banca europea degli investimenti (probabilmente di 10 miliardi) e i project bond. Il nome può trarre in inganno: non sono titoli di debito, ma strumenti con cui raccogliere risorse per finanziare con garanzia pubblica progetti infrastrutturali a livello europeo. Chi si accontenta gode. O almeno continua a sperare.

 

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