di Fabrizio Casari

Thomas Shannon Una visita lampo, o meglio un blitz, vista l'attitudine del suo governo. Comunque una incursione breve ma intensa, quella che ha caratterizzato il viaggio in Nicaragua di Thomas Shannon, Sottosegretario Usa per l'emisfero centroamericano. Il viaggio di Shannon è il segno evidente della preoccupazione statunitense per le elezioni presidenziali nella terra di Sandino, dove la competizione elettorale entra nella fase decisiva, quella che sancirà, con il voto del 5 Novembre prossimo, quale dovrà essere il destino del piccolo paese centroamericano.
Le quotazioni del Frente Sandinista de Liberacion Nacional, (FSLN) che candida il suo Segretario generale, Daniel Ortega, alla Presidenza della Repubblica, sono in continua ascesa. Vuoi per la credibilità del Frente, vuoi per il diffuso malessere della popolazione nei confronti del governo liberale di Enrique Bolanos, i sandinisti vedono consolidarsi il loro "zoccolo duro", cioè quella quota di elettorato che oscilla tra il 34 e il 40% dei voti. La destra rischia però soprattutto per la divisione interna all'elettorato liberale, che vede da un lato il giovane rampollo della borghesia locale, Eduardo Montealegre, alla guida dell'Alleanza Liberale Nicaraguense, (ALC-PC), sfidare l'altro candidato liberale José Rizo, candidato alla presidenza del Partito Liberale Costituzionalista (PLC), espressione dell'ala del partito fedele ad Arnoldo Aleman, ex-presidente ora agli arresti domiciliari accusato di una valanga di ruberie ed abusi. Montealegre del resto è un banchiere e non gode del favore della stessa oligarchia nicaraguese, composta dal grande latifondo e dalle grandi imprese, tutte di proprietà delle grandi famiglie nicaraguesi, risultando semmai un prodotto di laboratorio degli interessi statunitensi e del capitale finanziario.

Il governo statunitense, che vede come fumo negli occhi l'eventuale vittoria di Ortega, è impegnato da circa un anno nella difficile opera di mediazione tra le due ali del partito liberale. L'obiettivo è quello di riunificarle affinché, con l'aiuto dei conservatori, riescano ad impedire che i sandinisti ottengano la vittoria. Vittoria che, nel sistema elettorale maggioritario a doppio turno, potrebbe essere garantita anche dal raggiungimento del 35% dei voti al primo turno - se il distacco con lo schieramento che segue dovesse essere di almeno cinque punti - o, anche, con un distacco di un solo voto, se al primo turno uno degli schieramenti dovesse raggiungere il 45% dei consensi.
Decisiva è quindi la frammentazione politica dell'elettorato liberale, atteso che i sandinisti, vincitori di tutte le competizioni politico-amministrative negli ultimi anni, difficilmente scenderanno, con il solo voto storicamente consolidato, al di sotto del 33-34%. Peraltro, nel caso in cui non si ricomponga l'unità liberale e conservatrice e il PLC non riesca ad arrivare all'eventuale secondo turno, dove uno dei contendenti sarà certamente il Fsln, c'è il rischio che al ballottaggio la fazione liberale legata ad Aleman, possa votare Ortega piuttosto che Montealegre.

La recentissima morte di Herty Lewites, l'ex sindaco sandinista di Managua che aveva dato vita alla scissione dal Fsln in seguito al rifiuto dello stesso a candidarlo alla Presidenza, in qualche modo potrebbe cambiare le prospettive del Mrs (Movimento Renovaciòn Sandinista). Herty Lewites, che aveva lasciato il partito con un manipolo di funzionari ed ex comandanti, non preoccupava molto i dirigenti del Fsln. Le recenti elezioni nella Costa Atlantica del Paese avevano bruscamente ricondotto il MRS a pulce tra i giganti. Per la sua Alleanza Movimento Rinnovatore Sandinista non tirava, ne tira ora, aria di festa.
I calcoli che gli istituti demoscopici avevano effettuato nel cercare di misurare la capacità di drenaggio di Herty nei confronti del suo vecchio partito, risultavano oscillare tra il 2 e il 3%. Troppo poco per impensierire il Fsln e troppo poco quindi per tranquillizzare la destra. Ed è possibile che gli ex-comandanti sandinisti che avevano seguito Lewites, e che dovranno ora scegliere chi lo sostituirà nella candidatura alla presidenza, avranno una bella gatta da pelare. Perché gli ambiziosi sono in numero soverchiante rispetto alle cariche disponibili e l'uscita di scena di Herty, il cui carisma e controllo economico e giuridico della coalizione rappresentavano un livello gerarchico non alterabile, rimette tutto in discussione.

Il fatto è che nessuno degli ex-comandanti che si disputeranno l'eredità di Herty dispone di carisma e livello adeguato alla sfida elettorale per la presidenza: sfida che sarà all'ultimo voto e che, con la scomparsa di Herty, potrebbe vedere una ulteriore riduzione dell'effetto traino della coalizione orfana dell'ex sindaco di Managua, con il risultato di rimettere nelle mani del dualismo tra Liberali e Sandinisti l'esito della competizione. Difficile a quel punto che l'AMRS del dopo Herty possa giocare un ruolo decisivo.
E' sfida tra uomini veri, non adatta ai comprimari. E molti dei protagonisti della scissione non hanno nemmeno la credibilità personale per presentarsi davanti all'elettorato sandinista; criticavano Ortega "da sinistra" e si sono ritrovati in compagnia dell'ambasciatore Usa a Managua. In pochi anni, sono passati da guerriglieri a fiduciari di coloro contro i quali combattevano. Per ora pare che la scelta verta su Agustin Joarquin, vice di Herty fino a pochi giorni fa e di Carlos Mejia Godoy, cantautore storico del sandinismo finché governava.

Proprio per cercare di vedere chiaro nella competizione elettorale e per capire se temere o auspicare il voto del prossimo 5 Novembre, era sbarcato a Managua Tom Shannon, Sottosegretario statunitense agli affari dell'emisfero occidentale. Una visita, quella di fine giugno, per offrire le solite giaculatorie sul voto trasparente (il colmo per una amministrazione eletta con frodi elettorali..) e per riunirsi con Montealegre, da Shannon definito "la via del futuro" insieme all'allora ancora vivo Herty Lewites. Niente incontri con Rizo ed il PLC, visto che Rizo è considerato uomo dell'ex presidente liberale Aleman con il quale gli Usa, ufficialmente, non vogliono rapporti, dopo che el gordo fu il loro uomo di assoluta fiducia per diversi anni. Una storia già sentita, in America Centrale come altrove: da Noriega a Saddam, a Bin Ladin, quando cambia lo scenario o quando i burattini decidono di fare la parte degli attori, lo zio Sam la prende male. Sconfessa, o peggio, gli antichi amici che, a seconda del grado di potere che hanno accumulato, rimuove con crisi politiche, embarghi o invasioni militari.

Le speranze di Shannon circa l'esito elettorale non sono nuove. Già una settimana prima del suo arrivo a Managua, il diplomatico Usa aveva espresso il suo via libera a Montealegre e Lewites, definendoli "la via del futuro" nel corso di una manifestazione tenutasi a Miami nel cuore dell'insediamento nicaraguese negli Usa, prodotto del primo "esilio" somozista.
Esilio, si; si autodefiniscono come "esiliati" i fedelissimi della dittatura somozista che scapparono dal Nicaragua quando, nel '79, la rivoluzione s'impose. Da allora hanno costituito una potente lobby elettorale ed economica in associazione con i cubani fuoriusciti che, da Miami, dirige a colpi di odio e affari la politica Usa nell'emisfero. Si chiamano esiliati perché anche l'orecchio vuole la sua parte ed esiliati suona meglio che fuggitivi. Che poi i "rinnovatori sandinisti" siano stati accolti con giubilo dai nostalgici di Somoza, la dice lunga sui salti mortali che la politica propone…

L'arrivo di Shannon è stato commentato con soddisfazione da Montealegre, che con un evidente quanto fuori luogo narcisismo, ha detto di "aver spiegato" a Shannon che "dopo aver sconfitto il comunismo negli anni '80, ora intendiamo tracciare la riga per evitare l'interventismo chavista in America Centrale". Difficile immaginare Montealegre che spiega a Shannon. Molto più verosimile il riassunto del colloquio tra i due con il sottosegretario Usa a dare ordini ed il candidato del protettorato ad obbedire e rassicurare. Montealegre negli anni '80 giocava da rampollo di ricchi qual'era e certo l'Amministrazione Bush non deve apprendere da lui come combattere Chavez. Ma l'ansia da protagonista di Montealegre, che a detta di molti osservatori potrebbe risultare alla fine l'elemento decisivo per una sua figuraccia elettorale, serve al candidato delle banche per nascondere la genuflessione davanti all'impero.

E' tutta da verificare quindi la tranquillità degli Stati Uniti. Nel caso il trand elettorale avvertito dai sondaggi di opinione (che, anche solo per la morte di Lewites andranno riproposti), non dovesse confermare gli esiti che il proconsole statunitense auspica, allora forse sarà costretto anche ad incontrare, più o meno segretamente, esponenti del Frente Sandinista. Magari per dichiarare al mondo intero che ha voluto avvertire tutti i contendenti circa la regolarità del processo elettorale, moina per far credere di minacciare atteggiamenti di ripudio da parte degli Usa all'eventuale governo di Ortega; in realtà si tratterebbe di un tentativo di capire quale atteggiamento tenere a seguito di quali garanzie sul post-elezioni nel caso di una vittoria di Ortega.

Quello delle possibili frodi elettorali è uno dei cavalli di battaglia della compagine governativa liberal-conservatrice. Buffo, visto che, normalmente, i brogli può farli chi governa, non chi è all'opposizione. Ma tentare di delegittimare il Consiglio Supremo Elettorale (CSE) definito "organo in mano ai sandinisti" risulta l'unica possibilità preventiva d'invocare eventuali brogli successivamente ad una eventuale vitoria sandinista. E' l'arma di riserva della destra, quella della disperazione. Non è detto che l'operazione riesca, dal momento che l'OEA ed il Parlamento centroamericano vigileranno sulla regolarità delle operazioni di voto. Sarà semmai il FSLN a dover ricorrere ai Comitati per la difesa del voto sandinista per evitare quanto già occorso in occasione della vittoria di Aleman su Ortega, quando le schede con il simbolo del Fsln barrato, venivano trovate a migliaia nelle condutture della periferia della capitale.

Per gli Usa la partita comincia ad incanalarsi su un binario pericoloso.
L'atteggiamento del proconsole che discute i nomi a guida del protettorato, appare francamente un opzione che rischia di rivelarsi un boomerang sull'elettorato nicaraguese. Il complesso dei rapporti tra Washington ed il resto del continente non pare poter permettere - per quanto il Nicaragua sia terreno sensibilissimo per gli Usa - comportamenti anacronistici e in controtendenza rispetto allo scenario continentale. Si tenga anche conto che la Chiesa, diversamente dal passato, ha sostanzialmente archiviato l'atteggiamento ostile nei confronti del Fsln il quale, con grande abilità politica, persino con disinvoltura a volte eccessiva, si propone in forma riconciliatoria ed unica via d'uscita credibile allo sfascio economico, sociale e politico del Paese.
La stessa alleanza Nicaragua Trionfa, con la quale Daniel Ortega e Jaime Morales Carazo si presentano come formula presidenziale, raccoglie settori sociali e politici che vanno oltre la capacità d'attrattiva del Fsln, già di per sé notevole, visto che è, attualmente, il primo partito del Paese.
Questo non significa che la vittoria dei sandinisti sia a portata di mano: la capacità del governo statunitense di orientare con finanziamenti, minacce, favori e pressioni la storia del Nicaragua ha già fornito esempi di efficacia da non sottovalutare. Ma i sondaggi che da ogni parte vedono stabile il voto sandinista ed in caduta libera quelli degli eredi di Lewites e con una "strozzatura" di quelli di Montealegre a vantaggio di Rizo, inquietano non poco Washington.

Ce n'è abbastanza per procurare il mal di testa al proconsole Shannon. Una mancata ricomposizione della destra potrebbe ripresentare la terra di Sandino nella versione peggiore, vista da Washington: quella dove i nicaraguensi decidono chi, come e per gli interessi di chi, guida il Paese.
Quella, insomma, che riporta a Managua il governo del Nicaragua.

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