di Giuliano Luongo

Numerosi sono gli aspetti sottolineati in maniera più che ampia, spesso anche in maniera esplicitamente inutile, della grande rivoluzione egiziana culminata con la cacciata di Mubarak. In ogni caso, l'elemento economico sembra essere passato in sordina, quando invece si dimostra essere un dei fattori che più potranno influenzare seriamente il futuro del Paese. La situazione economica egiziana, infatti, era ed è tutt'ora disastrata.

E’ essenziale dare un’occhiata ai numeri per rendersi conto della gravità della situazione. Nel primo quadrimestre dell’anno in corso il PIL è tracollato di 7 punti percentuali, mentre il fatturato del turismo - settore traino per l’economia - è sceso dell’80%; il tutto condito da un tracollo del 32% del mercato azionario.

L’occhio vigile e metafisico del Fondo Monetario Internazionale ha stimato un tasso di crescita annuale per l’anno in corso dell’1%, quando solo 365 giorni fa la crescita annua era arrivata al 5,1%. Meno pessimista il molto meno blasonato IFI (Istituto della Finanza Internazionale), che ipotizza “solo” un dimezzarsi della crescita del PIL, con un dato per l’anno in corso al 2,5%, senza dimenticare che una crescita forte serve di base già solo a mantenere il passo con il livello di crescita della popolazione, cosa non facile in un paese come l’Egitto.

In quest’amena situazione (che potrebbe peggiorare) l’intervento di “salvataggio” delle istituzioni economiche e finanziarie internazionali è stato presentato come l’unico modo per uscire da questo momento di crisi. In effetti, però, è più inquadrabile come l’unico modo per le autorità egiziane per rendersi gradite al jet set delle potenze internazionali mostrando loro una faccia “globalizzata”. E magari anche per distrarre il resto del mondo dal fatto che le fazioni estremiste islamiche stanno tentando più che mai di colonizzare la politica del Paese.

In ogni caso, le cifre messe sul piatto dalle istituzioni economiche internazionali erano di certo più che ghiotte: 2,2 miliardi di dollari dalla Banca Centrale e soprattutto un maxi bail out da parte del FMI per coprire 10-12 miliardi di dollari di buco presente nel budget egiziano.

Inutile dire che, specie quello del Fondo, era un prestito più che condizionato dall’assunzione di misure liberalistiche e liberalizzanti da parte del governo provvisorio. Il Fondo aveva “dubbi” sulle vere intenzioni “liberali” dei leaders egiziani, temendoli troppo proni a “sottostare alla pressione popolare” e pertanto non avvezzi a dare il “colpo” necessario al sistema economico-istituzionale del Paese.

Vediamo dunque la tipica storiella della “liberalizzazione giusta” che si ripete: o ti apri forzatamente oppure niente, il prestito internazionale non arriva e via verso la bancarotta. Che allegria. Come sempre, questa vicenda pare dimenticare il fatto che allontanare lo Stato dalla società in un Paese tragicamente povero è solo un ottimo strumento per far sprofondare il Paese medesimo nelle mani degli oligarchi di turno supportati da residui di regimi precedenti e, perché no, potenze straniere interessate ad espandere la propria egemonia.

Il tempo passa, ma ancora nessuno pare imparare nulla dai fiaschi dei principi del Washington Consensus e della liberalizzazione forzata dell’Europa dell’est. E di certo a povertà diffusa l’Egitto sta messo più che bene, con un tasso medio del 20% di poveri nelle aree urbane che sale al 70% in quelle rurali.

In ogni caso, il 6 giugno scorso il FMI ha dato il proprio “via libera” al prestito, iniziando con la cifra di 3 miliardi di dollari (interessi all’1,5%) e la solita motivazione di rigore: il Fondo ha spiegato che il prestito sarà elargito per favorire una serie di riforme economiche che definiranno un nuovo assetto sociale tramite “lotta a povertà e disoccupazione” (anche con un programma di assunzioni pubbliche, un po’ in contrasto con l’idea di trinciare la spesa pubblica) e “varie riforme”.

Si noti come il termine riforme non venga mai associato a descrizioni - anche vaghe - sul contenuto delle stesse: in ogni caso, la verità è venuta a galla, con tutto il pacchetto innovatore che in pratica si sarebbe concretizzato in un mega taglio a tutto quello che potesse ricordare anche vagamente il caro, vecchio welfare. E fare questo in un Paese in cui i cittadini sono talmente esasperati da vivere accampati in piazza a spaccare tutto per richiedere condizioni di vita decenti, è francamente una baggianata. E si poteva scrivere di peggio.

Ma la leadership egiziana, memore di com’era finito Mubarak dopo l’ennesima manifestazione di piazza ove, accanto alle “solite” richieste di vere elezioni subito e più riforme politiche vi erano presenti forti inni contro questa devastazione economica supplementare spinta dal Fondo, ha deciso di non agire secondo quanto indicato dagli organismi finanziari internazionali.

Poco prima della fine di Luglio, infatti, il Ministro, delle Finanze egiziano Samir Radwan ha dichiarato che il suo Paese rinunciava pubblicamente a ricevere il prestito di salvataggio del Fondo, ritenendolo troppo oneroso sia per “numerosità” che per condizioni. Questo duro quanto inaspettato NO a caratteri cubitali si è manifestato (quale coincidenza) quasi in concomitanza con la dichiarazione di aiuto volontario e volenteroso da parte di Arabia Saudita e Qatar.

Riad aiuterà gli egiziani con 4 miliardi di dollari, erogati sotto forma di prestiti a lunga scadenza e contributi, mentre il Qatar - stando a quanto riferito dalle autorità dell’Egitto - contribuirà con “appena” 10 miliardi in investimenti (non sono state date specifiche ulteriori). La sensazione di sollievo venuta dal vedere come un Paese in via di sviluppo abbia mandato a quel paese il FMI viene però meno celermente vedendo che l’Egitto si allinea strettamente con due monarchie assolute a matrice islamica.

Non ci si può non domandare se l’Egitto abbia fatto o meno il tipico salto dalla padella alla canonica brace: non si può dirlo con certezza, in quanto non si può stabilire a tavolino quale sia il peggiore dei due mali, tra un’occidentalizzazione forzata (e sappiamo quanto le cose vadano male dalle nostre parti) ed una tendenziale re-islamizzazione, con l’alleanza economica - e probabilmente de facto anche politica - con le monarchie petrolifere islamiche.

Vedendo il sorgere di partiti legati ad estremisti islamici - non parliamo solo dei rinati Fratelli Musulmani, ma anche della nuova fazione politica ufficiale dei Salafiti - ed il supporto internazionale delle citate monarchie, non ci si può non preoccupare per vedere dove finirà l’Egitto: in barba agli slogan di libertà cantati dai coraggiosi rivoluzionari, le ombre che si stendono sul Paese sono lunghe e spesse come il braccio dell’oscurantismo. Non resta che sperare ancora nella forza della piazza. Perché, par di capire, serve ancora la piazza.

 

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