di Carlo Benedetti

Tra Georgia e Russia punto e a capo. E tutto come prima: guerra fredda carica di pericoli "caldi". Perché dall'incontro del 13 giugno svoltosi a San Pietroburgo tra i leader dei due paesi - Vladimir Putin per Mosca e Michail Saakashvili per Tbilissi - non si è giunti né ad un armistizio né ad una pausa di riflessione. Tutto è rinviato alle prossime pagine di una storia che già si prevede complessa e tormentata. Non è chiaro quale sarà l'atteggiamento che Mosca e Tbilissi adotteranno nei confronti dei movimenti separatisti filo-russi che agitano le regioni georgiane dell'Abchasia, dell'Ossezia meridionale e dell'Adzaristan. Nel frattempo - come già avviene da alcuni anni - valgono solo le supposizioni, con le maggiori diplomazie mondiali che segnano nelle loro agende gli interrogativi relativi alle vicende del Caucaso. E cioè "storie" profondamente segnate dal carattere dei dirigenti dei due paesi che hanno alle spalle tradizioni e biografie che bloccano eventuali processi di rifondazione. E così anche sul tavolo delle prossime trattative ci sarà sempre la complessità geopolitica ed istituzionale di una Georgia uscita dall'esperienza e dalla costruzione "sovietica" in modo traumatico. Ma anche per Mosca lo studio delle etnie e delle comunità caucasiche non rappresenta affatto una gratuita esercitazione intellettuale. Ne consegue che i due paesi - che sono sul piede della guerra fredda - hanno problemi analoghi, epocali.

Va ricordato, in proposito, che nel corso del processo di disgregazione dell'Urss Tbilissi proclamò - nel 1991 - la sua indipendenza portando alla presidenza del Paese un personaggio come Zvjad Gamsakhurdia che fu subito accusato di mire autoritarie e poi cacciato da una rivolta armata (1992). Fu sostituito da quell'Eduard Scevardnadze che era stato uno dei più stretti collaboratori di Gorbaciov ed uno dei padri della distruzione dell'Unione Sovietica. Fu lui, con i suoi metodi autoritari (già noti nella Georgia sovietica), che riuscì a dominare il Paese cadendo poi vittima delle sue stesse sfrenate ambizioni. E così la poltrona presidenziale fu occupata nel novembre 2003 dal giovane Saakashvili, leader di una rivolta passata alla storia locale come "Rivoluzione delle rose". Nessuno, comunque, era in grado in quel momento di prevedere gli sviluppi della situazione. Saakashvili era praticamente uno sconosciuto. Ma la sua biografia (poco nota per la verità) forniva già alcuni elementi di riflessione. Trentaseienne, si era laureato in legge negli Stati Uniti. Paese dove aveva avuto modo di entrare in contatto con esponenti del mondo dell'emigrazione georgiana e con uomini del Dipartimento di Stato. Aveva trovato anche due protettori: il miliardario George Soros che lo aveva messo sotto protezione attraverso la sua potente fondazione internazionale - l'Open Society Istitute - e l'ambasciatore Usa a Tbilissi, Richard Miles, un apprezzato esperto di "rivoluzioni pacifiche" che, non a caso, fu poi ambasciatore statunitense a Belgrado durante la cacciata di Milosevic dal potere.

Sponsorizzazione americana, quindi, per Saakashvili, con gli esperti della Casa Bianca, della Cia e del Pentagono certi di operare in Georgia (area strategica come base per l'intero Medio Oriente) un "cambio di regime" senza scatenare nessuna guerra. E convinti, soprattutto, dell'inutilità dell'anziano Scevardnadze che, pur avendo servito gli Usa quando era al vertice del Cremlino e della diplomazia dell'Urss, non era più considerato, politicamente, in grado di garantire la stabilità della Georgia in un momento in cui la repubblica caucasica diveniva d'enorme rilevanza per gli interessi economici di Washington e dell'Occidente in generale. Tutto il potere, quindi, nelle mani dell' "americano" Saakashvili.

Ma la situazione del Paese non era (e non è) lineare. Perché se nel periodo sovietico Mosca era riuscita a controllare i tanti processi di separatismo, con il crollo dell'Urss e con l'apparizione di forti oligarchie locali tutto diveniva praticamente incontrollabile. Grazie anche a lobbies che facevano capo a Mosca, a Tel Aviv e a Washington. E si scopriva così che il problema principale che stava minando la stabilità georgiana - e, con essa, il sogno della "Grande Georgia" - era quello delle regioni secessioniste, che sin dal 1992, rivendicavano l'indipendenza.
In questo processo, notevole è sempre stato il ruolo del nazionalismo panrusso. In particolare nelle regioni che sono georgiane quanto a struttura geografica, ma sostanzialmente russe quanto a storia e ad abitanti.
L'Abchasia, in primo luogo, che è l'anello più importante per Mosca. Definita come la "terra del sole" ha come capitale Suchumi ed è una Repubblica autonoma nell'ambito della Georgia.
Il suo territorio comprende una stretta fascia costiera tra la riva orientale del mar Nero e il versante meridionale del Caucaso. Il movimento separatista, qui, è sorto nel 1991 col sostegno dei russi. In pratica la situazione è controllata da Mosca tanto che si può parlare di un vero protettorato russo.
C'è poi l'Ossezia meridionale dove la Russia - su mandato dell'Onu - ha dislocato le sue truppe di peacekeeping. Questa regione è storicamente legata a Mosca. Ma attualmente il suo territorio è ripartito tra la Repubblica dell'Ossezia Settentrionale - che fa parte della Federazione Russa - e la provincia dell'Ossezia Meridionale che è, invece, della Georgia. Capitale di questa "provincia" è Chinvali. E qui, dopo il crollo dell'Urss (1991), si registrano forti tensioni autonomiste, tese ad un ricongiungimento con l'Ossezia Settentrionale.

Da questo quadro - complesso anche per le tante e tante etnie presenti - risulta che la Russia è più che mai coinvolta nelle vicende "georgiane".
Putin sembra deciso a mantenere il controllo dell'area. La "sua" Russia, tra l'altro, finanzia (direttamente e indirettamente) i secessionisti filo-russi; ne "tollera" i traffici illegali (loro fonte primaria di sostentamento), permette ad abchazi ed osseti del sud di ottenere il passaporto federale (praticamente la cittadinanza russa), fornisce gratuitamente il gas (il cui prezzo è invece raddoppiato nel resto della Georgia) e, addirittura, paga le pensioni agli anziani.
Analoga situazione nell' Adzaristan - regione a sud-ovest della Georgia, al confine con la Turchia - dove si è consolidato un movimento autonomista sostenuto dai russi. E dove, nella capitale Batumi, si trovano una base militare russa (eredità del periodo sovietico), un importante porto e un terminal in cui affluisce il petrolio kazako e azero.

E' in questo contesto della nuova geopolitica che Putin decide di aprire il dialogo con Saakashvili per superare le tante difficoltà che gravano anche su una Russia già profondamente lacerata dal nodo ceceno.
Quanto a Saakashvili, il suo obiettivo è di tenersi sempre più stretto all'amico americano e ai protettori (Soros in primis). Sa di aver portato la Georgia nel vicolo cieco di un'occidentalizzazione da terzo mondo e quindi tenta - come fa il suo collega ucraino Yushenko - di risalire la china con gli aiuti dell'Unione Europa e della Nato.
Ecco quindi che a San Pietroburgo il Cremlino di Putin si è trovato a fare i conti con un personaggio ambiguo il quale ha chiesto sì di trattare, ma ben consapevole di avere alle spalle sponsor d'oltreoceano. Mosca ora insiste nel sostenere che al summit si è discussa "l'intera gamma dei problemi esistenti nei rapporti bilaterali". E Saakashvili ha mostrato tutta la sua disponibilità diplomatica ricordando che: "La ripresa del dialogo al massimo livello risponde all'interesse dei due Paesi".
Tutto qui. Accordo sul disaccordo. Nessun esponente georgiano, di conseguenza, parla apertamente di cosa bolle realmente in pentola. Ma tutti sanno che la Russia è sotto accusa. Al Cremlino si rinfaccia di volersi annettere le regioni secessioniste della Georgia (Abchasia e Ossezia del sud) e di voler mettere in ginocchio Tbilissi con embarghi che hanno colpito - ufficialmente per ragioni sanitarie - il vino e l'acqua minerale "made in Georgia". Ma è chiaro che non si tratta di questioni di vini o acque minerali. Lo scenario è ben altro: c'è una selva geopolitica che rappresenta una vera mina vagante. La Georgia vive un periodo economicamente difficile. E si tenga presente che le "questioni cecene" sono veramente a due passi.

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