di Daniele John Angrisani

Chi pensava che la campagna elettorale per le elezioni di mid term fosse già conclusa a favore dei democratici, si sbagliava alla grande. Con una serie di colpi di scena, a distanza di pochi giorni l'uno dall'altro, la macchina elettorale repubblicana ha dimostrato tutta la sua vitalità e la sua capacità di stupire, anche se tutti gli esperti del settore la davano già per spacciata. Di fronte ai sondaggi che vedevano il rating di Bush scendere sempre più in basso, raggiungendo qualche settimana fa addirittura il 29%, gli strateghi repubblicani hanno alacremente lavorato per cercare di cambiare il vento in maniera a loro favorevole e, almeno in parte, sembra ci siano riusciti. L'uccisione di Al Zarqawi ha sicuramente dato loro una mano, ma indubbiamente il capolavoro di questa strategia è stato il viaggio di Bush a Baghdad. Inatteso, da alcuni insperato, preparato in totale segretezza, sembra che persino il governo iracheno non ne fosse venuto a conoscenza e che era preparato a incontrarlo solo in videoconferenza. Per la verità il presidente americano non si è mosso al di fuori dell'area dell'ambasciata americana, all'interno di quella superfortezza definita "Zona Verde" nel cuore di Baghdad. Ma ciò che conta, è mostrare all'opinione pubblica che il presidente ancora c'è, è ben presente ed ha a cuore la missione in Iraq. Tutto, ovviamente ad uso e consumo del pubblico interno e, soprattutto, di quegli elettori che devono assolutamente essere mobilitati alle urne per evitare una debacle che altrimenti sarebbe disastrosa in vista delle elezioni di novembre.

Lo stesso giorno che Bush è stato a Baghdad per la sua visita lampo, i repubblicani hanno potuto anche festeggiare, definitivamente, la fine delle indagini su Karl Rove, il loro principale consulente strategico, per la vicenda Valerie Plame. Il procuratore speciale Fitzgerald ha infatti informato Lushkin, l'avvocato di Rove, che il suo cliente si può ritenere di fatto al di fuori delle indagini. Si è arrivati così alla fine di una lunga telenovela che sembrava, solo poche settimane fa, prendere una brutta piega per il consigliere presidenziale il quale, secondo alcuni siti internet, era stato addirittura già messo sotto accusa. Voci che sono state prima smentite con vigore, e poi sono risultate definitivamente false. E' pur vero, però, che le indagini continuano: in un editoriale del The Nation si specula infatti che, a seguito del proscioglimento di Rove, la nuova "preda" del procuratore speciale possa essere addittura Dick Cheney, il vicepresidente americano. E' chiaro che una sua, sebbene al momento solo ipotetica, messa in stato d'accusa, sarebbe a dir poco disastrosa per l'Amministrazione Bush e l'interno establishment politico repubblicano.

Evitando però di ragionare sulla fantapolitica, al momento ciò che è sicuro è che sono i repubblicani a poter respirare dopo mesi di affanno politico. Karl Rove, libero dalle accuse, può finalmente occuparsi di mettere a punto la strategia per le elezioni di mid term, viste da più parti come la vera cartina di tornasole per questa Amministrazione presidenziale, mai tanto amata e poi odiata dagli americani. Stando a ciò che affermano i sondaggi di opinione in possesso della Casa Bianca, l'elettorato che sembra più aver abbandonato i repubblicani è proprio quello conservatore. Compito di Karl Rove è ora quello di rimettere in sesto quella macchina da guerra che ha permesso, brogli compresi, di far rieleggere George W. Bush nel 2004. Ciò significa far si, sostanzialmente, che tutto l'elettorato cristiano conservatore degli Stati del centro e del sud vada a votare compatto e che, altrove, si possa sempre contare su fratelli o industrie costruttori di macchine per il voto elettronico compiacenti.

Dall'altra parte della barricata, nonostante questi ultimi accadimenti, i democratici sentono ancora di avere il vento in poppa, anche se, ad onor del vero, non è che abbiano fatto molto per meritarselo. Sebbene infatti tutti i loro timidi tentativi di fare opposizione al Senato o alla Camera non abbiano portato risultati concreti, la marea montante dell'opposizione alla guerra ancora vede in loro gli unici reali sfidanti dell'egemonia repubblicana. E' per questo motivo che la stessa Cindy Sheehan, la madre coraggio simbolo del pacifismo americano contro la guerra in Iraq, ha dichiarato la propria intenzione di scendere in politica con i democratici in funzione anti Hillary Clinton; ed un'altra star del movimento pacifista, Ned Lamont, ha deciso di sfidare in una lotta all'ultimo voto il senatore democratico uscente Joe Lieberman, conosciuto soprattutto per le sue posizioni filo Bush, nelle primarie democratiche del Connecticut. Lieberman, conscio del pericolo, ha già posto una spada di damocle sul suo sfidante, annunciando di essere pronto a correre come indipendente se gli elettori democratici lo sfiducieranno alle primarie.

La battaglia è ancora all'inizio, ma già si preannuncia spettacolare. In gioco è il controllo della Camera dei Rappresentanti e forse anche del Senato, anche se un ribaltamento alla Camera Alta sembra molto meno probabile, visti i rapporti di forza e i seggi in bilico. La paura che serpeggia alla Casa Bianca è quella che Bush possa trasformarsi in una "anatra zoppa" per gli ultimi due anni di presidenza, destino a cui sono andati contro molti altri suoi predecessori. Ma c'è anche altro in ballo. Di fronte alla marea montante degli scandali che hanno colpito la presidenza americana, e di fronte al continuo bagno di sangue che, Zarqawi o meno, continua a martoriare giornalmente l'Iraq, un Congresso democratico potrebbe anche decidere di aprire una inchiesta sulla presidenza Bush ed innescare quel processo che, ai tempi di Nixon, portò alla fine alle dimissioni del presidente più odiato nella storia degli Stati Uniti d'America. C'è chi specula addirittura che, in questo contesto, dopo una sconfitta elettorale, possano essere gli stessi repubblicani ad abbandonare la nave che affonda e procedere alla messa in stato d'accusa di Bush, per non rischiare la sconfitta anche alle presidenziali del 2008.

Quel che è sicuro è che metà America (e la stragrande maggioranza dell'opinione pubblica mondiale) ci spera dal giorno stesso dell'elezione di Bush. Il 7 novembre 2006, giorno delle elezioni di mid term, rischia davvero di trasformarsi in una lotta all'ultimo voto e senza quartiere. Bisogna solo sperare che stavolta i democratici siano in grado di adempiere al proprio compito. Molto di quello che accadrà nei due anni successivi potrebbe dipendere da questo e gli elettori americani potrebbero non perdonare più i democratici se dovessero sprecare nuovamente una occasione così ghiotta per bloccare la follia militarista di Bush e dei neoconservatori che tante vittime ha già fatto sino ad ora.

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