di Fabrizio Casari

L’esilio per Gheddafi, le armi per gli insorti: la Conferenza di Londra sembra voler stringere i tempi nella guerra alla Libia. Le obiezioni sono di diversi paesi e per diversi motivi, ma appare chiaro che Parigi, Londra e Washington cominciano ad avere fretta, anche perché le ultime giornate segnalano un bollettino di guerra diverso da quello che s’ipotizzava. Le forze lealiste, infatti, benché colpite ripetutamente, non rinunciano alla controffensiva e i rivoltosi, dal canto loro, non sembrano fare grandi progressi.

Il quadro militare è appunto questo. Abbandonata, raid dopo raid, qualunque apparenza di applicazione della Risoluzione Onu, l’interdizione al volo e la protezione dei civili è diventata sempre più guerra aperta al governo e ai suoi sostenitori, civili o militari che siano.

Ma proprio per evitare uno stop internazionale, i raid non possono ripetersi ad ondate continue e quindi, distrutte le dotazioni aereonautiche e qualche deposito di armi del governo, diventa difficile bombardare h24 tutto quello che si muove. Si può “pulire” il terreno, si possono colpire preventivamente alcuni obiettivi, ma poi, per forza di cose, sono le truppe di terra che devono tenere le posizioni e conquistare altro territorio. E qui la faccenda si complica, perché a terra la Nato non scende (almeno per ora) e l’iniziativa tocca quindi agli oppositori libici; che però, a dire il vero, non mietono risultati straordinari, tutt’altro.

Le forze di Gheddafi si ritirano da alcuni centri solo quando vengono attaccate dai raid dell’aviazione occidentale; raid che vedono una modalità d’attacco al suolo preminente rispetto a quella dei primi giorni, ad indicare la tendenza a far evolvere le operazioni militari in chiave di minor protezione ai civili e maggior attacco ai nemici. Ma come già detto, non appena gli aerei si ritirano c’è però da occupare l’area, e qui nascono i problemi. Perché i rivoltosi, deboli in patria ma fortissimi nelle cancellerie occidentali, avanzano appunto aiutati dai raid aerei, ma indietreggiano quando si deve combattere a terra. E le truppe di Gheddafi rioccupano i territori e le città precedentemente abbandonate per sottrarsi ai raid aerei.

A ormai diversi giorni dall’entrata in guerra della santa alleanza per il petrolio, il quadro appare chiaro: per quanto si siano dannati l’anima nell’addestrarli, per quanto non abbiano lesinato nell’offerta di ogni bene bellico possibile, per quanto si siano impegnati nel fornire nozioni militari, gli istruttori delle SAS di sua maestà e la DGSE di Parigi, miracoli non ne fanno.

Non sono riusciti, perciò, a trasformare i fedeli monarchici senussiti, dediti agli affari e all’agricoltura, alla politica e al commercio, in combattenti capaci. Il ritratto identitario dei rivoltosi, del resto, era già noto: implacabili negli affari, incapaci nel combattimento.

E se la scena internazionale è dominata dalla discussione sulle caratteristiche dell’esilio per Gheddafi (che però per ora ad esiliarsi nemmeno ci pensa) anche sul fronte diplomatico interno la situazione non è rosea. Grazie all’adesione incondizionata alle mire francesi, i senussiti non riescono ad attrarre la tribù Warfalla, la più importante delle tribù libiche che, con qualche “se” e qualche “ma”, prodotti di un rapporto con Gheddafi non privo di contrasti, continua però ad appoggiare il Colonnello.

Dal punto di vista delle altre tribù c’è una logica: l’alleanza con Parigi di quelle della Cirenaica sbilancia notevolmente gli equilibri di potere nelle 140 tribù libiche a favore dei senussiti, che sono già interlocutore pressoché unico dell’Occidente.

Se la guerra dovesse terminare con la fine del Colonnello e la presa del potere da parte dei cirenaici, le tribù della Sirte, della Tripolitania e del Fezzan sarebbero quindi le prime a pagarne il conto in chiave di assetti di potere interno alla Libia. Viceversa, non essersi schierate con i senussiti significherebbe - in caso di vittoria del regime - poter porre in termini di peso ed influenza un’ipoteca pesante sul governo del paese, molto maggiore a quella fin qui avuta e decisamente schiacciante nei confronti delle tribù cirenaiche che verrebbero definitivamente messe all’angolo.

L’errore dei cirenaici è qui, fondamentalmente: accecati dalla loro avidità di potere e ansiosi di ristabilire supremazie e gerarchie nuove nella galassia delle 140 tribù libiche, non hanno consentito ad europei e statunitensi di aprire un canale di dialogo con le altre tribù del paese, riservandosi l’esclusiva nei rapporti diplomatici e mediatici internazionali e, a maggior ragione, nelle ipotesi di governo transitorio e nel programma dello stesso disegnato in questi giorni.

L’Occidente, dal canto suo, non appare unito dal cemento. Obama, ormai lanciato verso la sua avventura militare, nella speranza che gli arrivi un po’ di ossigeno politico nei suoi rapporti con i repubblicani, si dice “pronto a rifornire di armi i ribelli”; e anche Parigi si dice pronta, in quanto già disponibile a concedere ogni sorta di visto politico agli insorti. Ma il Pentagono appare più prudente.

Solo 48 ore fa, infatti, il Comandante della Nato in Europa, l’Ammiraglio statunitense James Stavridis, durante un’audizione presso la Commissione Forze Armate del Senato Usa, ha detto che si sta “esaminando con estrema attenzione l’entità, la composizione, le personalità di chi è a capo degli insorti libici”. Pare che la lezione afghana qualcosa abbia insegnato e gli Stati Uniti vorrebbero evitare di ritrovarsi ad avere a che fare con un problema molto più complicato di quello che avevano con l’ormai addomesticato Gheddafi.

 

 

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