di Eugenio Roscini Vitali

Il 10 gennaio scorso, con un video diffuso su web dal quotidiano basco Gara ed un comunicato stampa in lingua inglese, l’organizzazione separatista basca, Euskadi Ta Askatasuna (ETA), ha annunciato che la tregua avviata il 5 settembre 2010 sarà trasformata in un cessate il fuoco permanente e generale. Una soluzione duratura che permetterà la fine del confronto armato e consentirà il raggiungimento degli obiettivi del movimento separatista basco, dai diritti della regione alla sua indipendenza: «È arrivato il tempo di comportarsi con responsabilità storica.

L’ETA chiede ai governi di Spagna e Francia di mettere fine a tutte le misure repressive e lasciare da parte una volta per tutte le loro posizioni di negazione della nazione basca. L’ETA continuerà la sua infaticabile battaglia per promuovere e portare a conclusione il processo democratico fino a che nella nazione basca non ci sarà una situazione realmente democratica». Il documento arriva all'indomani della manifestazione a favore dei diritti dei terroristi detenuti e a quattro mesi dal video messaggio consegnato alla BBC, nel quale si annunciava una tregua con l’obiettivo di mettere in moto un processo democratico per l'indipendenza dei paesi baschi e si chiedeva alla comunità internazionale di «prendere parte ai negoziati per trovare una soluzione giusta e democratica a questo secolare conflitto politico».

La prima reazione del governo è stata quella del ministro degli Interni, Alfredo Perez Rubalcaba, che giudica la dichiarazione non conforme con quanto richiesto dalle autorità e non sufficiente a garantire la fine della lotta armata nei Paesi Baschi: «L’unico comunicato che vogliamo leggere è quello in cui ETA dichiara la fine della lotta armata ed è evidente che ciò non è successo; se mi chiedete se ciò rappresenti la fine dell’organizzazione separatista direi proprio di no: è una buona notizia, ma non è la notizia. Chiaramente non è quanto la società spagnola sperava».

In una intervista all’emittente Antena 3 lo stesso primo ministro, Josè Luis Rodriguez Zapatero, ha dichiarato che i vertici dell’organizzazione separatista  devono prendere iniziative molto più convincenti e definitive: «Nessuno pensi che il governo abbasserà la guardia, non intendiamo consentire alcun inganno. Senza alcun dubbio, all’orizzonte c’è la fine della violenza, ma ci vorrà tempo e dobbiamo restare uniti. Sappiamo che sarà un processo duro e costoso».

Scettico pure il principale partito di opposizione, il Partido Popular (Pp) di Maria Dolores de Cospedal, che si è detto pronto ad accettare solo lo scioglimento definitivo del gruppo e per ora ha definito la tregua come una semplice pausa delle attività terroristiche. L’allusione avanzata nel comunicato a un possibile referendum sull’indipendenza, ipotesi peraltro già respinta in passato dal Parlamento spagnolo, è stata comunque accolta positivamente da gran parte della sinistra abertzale, i movimenti indipendentisti baschi di estrazione nazionalista che da diverso tempo premono su ETA perché annunci una tregua permanente e verificabile.

Il movimento indipendentista basco Herri Batasuna, considerato da molti il braccio politico dell’ETA e dichiarato illegale dal 2003, ritiene che l’annuncio del gruppo sia un fatto di “portata storica”, una decisione senza precedenti che «apre in forma chiara e inequivocabile l’opportunità di avanzare in forma irreversibile verso un orizzonte di pace e di soluzioni democratiche».

L’ETA, nata il 31 agosto 1959 per volontà di un gruppo di studenti di Bilbao fuoriusciti da Eusko Gatedi Indarra, l’organizzazione dei giovani del Partito nazionalista basco (Pnv-Eaj), è stata per anni una spina nel fianco del regime di Franco. Un’anomalia nel panorama politico europeo e un movimento di liberazione che ha tratto alimento dalla cultura basca e dalle sofferenze della guerra civile, un conflitto che Euskal-Herria (Paesi Baschi) ha pagato con 25.800 morti, 15.000 dei quali uccisi dai bombardamenti, 21.780 fucilazioni, 49.500 feriti, 86.550 prigionieri, 150.000 esiliati e quasi 600 mila perseguitati.

La volontà franchista di annientare l’identità basca, la militarizzazione totale delle province spagnole di Vizkaya, Alava, Guipuzcoa e Navarra, le schedature, le detenzioni preventive e i maltrattamenti, furono per anni la cornice alla mancanza dei diritti civili più elementari; ed è in questo clima che tra i giovani matura la convinzione che contro la violenza di regime l’unica soluzione possibile è la lotta armata.

Si faceva riferimento alle esperienze di Cuba e al Fronte di liberazione algerino, alle condizioni di vita della classe operaia e alla coincidenza tra lotta nazionale e lotta di classe, una riflessione che porterà l’ETA a definirsi socialista, termine che ritroveremo nello slogan “Gora Euskadi socialista” (viva Euskadi socialista) e in chiusura di tutti i documenti ufficiali che, al contrario di quanto si pensa, non termineranno mai con l’aggettivo comunista o marxista-leninista.

Il cammino dell’ETA non si concluse neanche dopo il 1973, quando per  problemi di salute il Generalissimo Franco nominò capo di Stato supplente Juan Carlos I di Spagna, e neanche dopo la morte del Caudillo de Espana (19 novembre 1975), quando il potere passa dalle mani della neonata monarchia costituzionale. In 52 anni di storia l’ETA è stata ritenuta responsabile della morte di 829 persone, un escalation di operazioni militari che hanno devastato la Spagna.

Dalla prima vittima, Meliton Manzanas, capo della polizia politica della provincia di Guipuzcoa ed ex-informatore della Gestapo, fulminato il 2 agosto 1968 da una pallottola sulla porta di casa, fino all’attentato del 30 luglio 2009 a Maiorca con due agenti della Guardia Civile uccisi, passando per la spettacolare azione dinamitarda nella quale viene assassinato l’ammiraglio Carrero Blanco, capo del governo e delfino designato del Caudillo.

Un percorso che l’organizzazione separatista ha comunque pagato duramente anche dopo la transizione spagnola alla democrazia, ma che non si è fermato neanche di fronte alle ondate di arresti e alla falcidia sofferta dall’intera struttura direttiva: tra il 1978 e il 1998 si contano 2.770 azioni, 6.585 arresti e 1.448 detenzioni.

L’annuncio del 10 gennaio non giunge del tutto inaspettato: le difficoltà di Eusko Alkartasuna (EA), il partito nazionalista basco nato il 4 settembre 1986 da una scissione interna al Pnv-Eaj, e la messa al bando di Batasuna, hanno spinto i leader politici della cosiddetta sinistra “abertzale” a promuovere «un negoziato per via politica e pacifica» e, nel marzo scorso, hanno invitato pubblicamente il gruppo armato ad abbandonare la strada della lotta armata.

Le valutazioni dell’opinione pubblica spagnola restano comunque caute e molti analisti sono convinti che si tratti solo di una prima offerta, una svolta sulla quale pesa soprattutto la raffica di arresti dello scorso anno, 68 tra dirigenti e militanti, tra i quali Ibon Gogeascoechea, nome di battaglia “Arronategui”, ricercato dal 1997, e Mikel Kabikoitz Carrera Sarobe, noto come “Ata”, presunto responsabile dell’ala militare dell’organizzazione. Se ciò fosse vero quello che alcuni hanno già definito “la fine della fine” è ancora ben lungi dall’arrivare.

 

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