di Giovanna Pavani

Adesso, solo adesso, Gorge W. Bush dice di essere "profondamente turbato". E adesso, sempre e solo adesso, la sua preoccupazione è che i corpi dei tre primi suicidi del carcere di Guantanamo, due detenuti sauditi e uno yemenita, siano trattati secondo quanto prevede la legge islamica, nel massimo rispetto, dunque, della loro religione.
Rispetto. Una parola che oggi risuona come un'ingiuria postuma a chi non ha avuto il privilegio di vedersi riconoscere questo primario diritto umano da vivo. Ma è un insulto anche per i vivi, per quelli che non possono far a meno di leggere nelle parole di Bush l'ennesimo, goffo tentativo dell'Amministrazione Usa di frenare l'inevitabile risposta che questo atto di apparente, estrema disperazione di tre uomini detenuti in modo arbitrario e definitivo nel "gulag dei tempi moderni", potrebbe scatenare a livello internazionale. Perché c'è soprattutto una domanda che aleggia indiscreta su questa vicenda, più che su altre maturate in seguito a fatti recenti: si sono uccisi davvero o li hanno ammazzati alla fine di un classico "confronto all'americana" tipico dell'unico carcere off shore del mondo? Bush, ovviamente, conosce la risposta. E sa che stavolta la pioggia di critiche internazionali sarà ancora più acida e corrosiva di sempre per la stabilità del suo governo e per la tenuta dell'asse anti-islamico occidentale. Guantanamo, infatti, é un punto di scontro tra l'Amministrazione Bush e gli alleati e le prese di distanza, stizzite, che sono cadute pesanti nella stanza ovale di Washington, soprattutto dopo le denunce di Amnesty International, stanno lentamente incrinando il muro di sicurezza e di arroganza del presidente texano. La chiusura del carcere é stata chiesta dal cancelliere tedesco Angela Merkel, dal premier danese Anders Fogh Rasmussen e dal ministro della giustizia britannico Lord Goldsmith. Una pressione molto forte che aveva convinto Bush, solo venerdì scorso, a sedare gli animi affermando che il suo obiettivo sarebbe stato quello di chiudere Guantanamo. ''Vorremmo vedere la fine di Guantanamo. Vorremmo vederla vuota''. Poi, però, si era lasciato andare ad un'aggiunta che ha smascherato il vero pensiero, dunque l'ennesima menzogna. ''Dentro c'e' gente che, se liberata, farebbe del male ad americani e a cittadini di altri paesi del mondo. Per questo ritengo che questi prigionieri debbano essere processati in tribunali negli Stati Uniti''. La chiusura del Gulag, dunque, non è nell'agenda setting del governo americano: più chiaro di così non si può.

Ma l'imbarazzo derivante da quest'ultimo "incidente" è comunque forte per l'amministrazione americana. La preoccupazione di Bush è oggi anche la vendetta, la rappresaglia del mondo islamico. Non a caso il contrammiraglio Harry Harris, comandante della base prigione, ha parlato dei tre suicidi come "non di un atto di disperazione ma di un atto di guerra". Che non ha mancato, in qualche modo, di essere subito dichiarata, grazie all'immediatezza con cui il regime talebano in Afghanistan ha respinto al mittente la ricostruzione del suicidio dei tre detenuti bollandolo come un falso. Fino ad oggi a Guantanamo sono stati registrati 41 tentativi di suicidio e neppure uno è riuscito. Pensare che i tre musulmani possano aver portato a termine il loro intento impiccandosi con un cappio improvvisato di lenzuola e vestiti al soffitto delle loro celle non convince. Mofleh al-Qahtani, vice presidente dell'Assemblea nazionale saudita per i diritti umani, ha espresso forti dubbi sulle cause che hanno portato al decesso dei tre prigionieri, così come ha fatto un sedicente portavoce dei talebani, Mohammad Hanif. ''Noi non possiamo accettare l'affermazione che essi si sono suicidati, perché nessun musulmano, nessun mujaheddin può suicidarsi. E' proibito dalla sharia, la legge islamica''. ''Gli Stati Uniti dicono che i tre uomini, tre arabi, si sono suicidati e questo non e' vero, sono stati uccisi dai loro guardiani; un mujaheddin si impegna a battersi fino all'ultimo respiro'' ha aggiunto Hanif.

Dettagli d'identità religiosa che, senza dubbio, sfuggono all'amministrazione repubblicana. Che potrebbe - e diciamo potrebbe, perché il sospetto è d'obbligo - aver costruito, nel consueto modo raffazzonato, un incidente per mascherare un interrogatorio di gruppo sfuggito di mano per eccesso di zelo di qualche aguzzino in divisa. Risuona infatti inquietante il commento del generale John Craddok, comandante del Sothern Command di Miami. Senza alcun tentennamento, Craddok ha affermato che "la struttura di Guantanamo è fondamentale per il lavoro dell'esercito contro il terrorismo e gli interrogatori procederanno. Le persone lì detenute non sono criminali comuni, sono molto pericolose e costituiscono una minaccia per il nostro paese". Un modo come un altro per legittimare il proprio lavoro, la guerra privata di Bush e la prosecuzione della violazione dei diritti umani in nome del petrolio.

Il sospetto sulle modalità del suicidio dei tre prigionieri resta dunque molto pesante. E' infatti ragionevolmente impensabile che in un carcere di massima sicurezza, nel reparto dei guardati a vista di Camp 1, sotto i riflettori internazionali e in una situazione segnata da pesanti rivolte interne, punteggiate da scontri tra guardie e prigionieri durate anche 18 ore di seguito, oppure da scioperi della fame che hanno fatto registrare anche 131 digiunanti a fronte di 460 detenuti, la strettissima sorveglianza abbia potuto peccare di un'ingenuità tale da lasciare che i tre islamici si togliessero la vita di notte per essere scoperti solo all'alba del giorno dopo. Sarebbe sorprendente a Regina Coeli, figurarsi lì. E questo a fronte anche del fatto che quei detenuti che portavano avanti lo sciopero della fame ad oltranza sono stati alla fine sottoposti ad alimentazione forzata proprio per evitare che a Guantanamo ci scappasse quel morto capace di far scoppiare un putiferio. "Qui non vogliamo che muoia nessuno", aveva detto, nei giorni scorsi, un portavoce al quotidiano Miami Herald. Invece è accaduto.

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