di Mario Braconi

“Posso usare la mia carta di credito per spedire denaro al Ku Klux Klan, ai fanatici antiabortisti, o agli esaltati anti-omosessuali, ma non per finanziare Wikileaks”, così Jeff Jarvis, blogger e professore di giornalismo interattivo presso la City University di New York, sul suo blog. Effettivamente, il delirio scatenato dal “caso Wikileaks” nel mondo politico e degli affari è un’eccellente occasione per un “reality check” sul valore corrente dei diritti negli Stati Uniti (e nel resto del mondo).

E’ certamente discutibile sostenere che il torrente d’informazioni riservate con cui Assange e soci hanno inondato il mondo sia il balsamo salvifico agognato dalle democrazie occidentali per aiutarle ad uscire dalla loro impasse; si tratta infatti di informazioni in gran parte note ed in più sparpagliate senza criterio, né metodo, né apporto critico. Ne è troppo difficile detronizzare Julian Assange dal piedestallo sul quale si è autoinstallato (complice anche la generalizzata sfiducia di ogni popolo nei confronti delle istituzioni che lo dovrebbero rappresentare) e riportarlo ad una dimensione più conforme alla sua vera natura: quella di un uomo simpatico, ma spregiudicato, superficiale nonché vagamente esibizionista.

Questo non toglie nulla allo spettacolo deplorevole che i politici hanno dato di sé una volta che lo spettro di una possibile “nudità del re” ha cominciato a diventare pericolosamente concreto davanti ai loro occhi (si pensi al patetico Frattini che gioisce a mezzo stampa dell’arresto da operetta di Julian Assange). A proposito del quale, qualcuno dovrebbe ricordare al nostro ministro che il pretesto con cui Assange è stato incastrato nulla ha a che vedere con i presunti reati di violazione di segretezza che tanto lo fanno imbufalire.

Non si sa perché, poi, dato che è noto a tutti, tanto per dirne una, che egli antepone gli interessi commerciali del nostro Paese in Iran al destino di migliaia di dissidenti, mica serve Wikileaks. Si noti, a margine, che é tipico delle dittature far passare un personaggio “scomodo” per pazzo o maniaco e che forse solo il nostro eccellente ministro sembra non ricordarsene, e per questo, irresponsabilmente, gode.

Il tutto senza voler entrare nel merito delle accuse mosse all’attivista australiano: a differenza di quanto si legge in genere, infatti, il capo di accusa per accertare il quale un tribunale svedese lo sta cercando non sarebbe “stupro” ma un generico ed alquanto vago “reato connesso alla condotta sessuale”. Si tratterebbe di comportamenti che perfino nella severissima Svezia sono sanzionati con una multa: a che scopo mettere in mezzo l’Interpol, quindi?

Secondo la ricostruzione del tribunale svedese, infatti, Assange avrebbe avuto rapporti sessuali con due donne in pochi giorni nello scorso agosto e, in entrambi i casi, si sarebbe rifiutato di usare il preservativo e, successivamente, di fornire alle due partner-groupie formale certificazione di non essere affetto da AIDS. Una condotta non commendevole, la sua, forse addirittura irresponsabile, se fosse provato che le sue partner lo avessero invitato specificamente ad adottare misure precauzionali, ma certo ben diversa dallo “stupro” come s’intende comunemente nei paesi diversi dalla Svezia.

Mentre in Italia Frattini squittisce, negli USA ed in Francia ci si dà da fare (anche se in maniera irresponsabile, ma tant’è): basta una telefonata dallo staff del senatore democratico Liebermann (quello del ticket con Al Gore) ed il braccio di Amazon che si occupa di hosting scarica Wikileaks. Improvvisamente si rende conto che non può “pubblicare” materiale di cui non ha proprietà e, sempre improvvisamente, teme che i documenti di Wikileaks possano costituire un pericolo potenziale per le persone coinvolte nei fatti di cui si parla.

Con gran dispetto del censore, la creatura di Assange e soci risorge dopo poche ore con domini molto simili anche se radicati in Germania ed Olanda, mentre i suoi contenuti sono “mirrorati” da centinaia di siti amici: risultato pratico della censura statale, zero e danno di immagine massimo (ammesso che vi sia ancora qualcosa da danneggiare). La Francia filoamericana di Sarkozy non vuol essere da meno e minaccia ritorsioni contro OVH, una delle società su cui si appoggia Wikileaks, con un memo “riservato” a firma del ministro dell’Industria Besson, fatto poi recapitare sulle scrivanie di tutti i caporedattori dei quotidiani francesi.

Dopo aver minato l’onore di Assange (pare che nelle ricerche su Google ormai al suo nome sia regolarmente associata la parola “stupro”), tentato in modo patetico di eliminare i puntelli digitali su cui si regge Wikileaks, non restava altro che tentare di strozzarla finanziariamente, asciugando gli affluenti che ne rendono possibile la vita e le attività: il denaro, che all’organizzazione perviene da contributi volontari veicolati tramite carte di credito o PayPal.

Entrambe le società (che, come giustamente dice Jarvis, intrattengono proficui rapporti commerciali anche con la feccia umana che spaccia violenza e con ogni specie digital-pappone senza particolari remore moralistiche) realizzano che, facendo pervenire ad Assange e soci i soldi che i suoi amici e simpatizzanti volontariamente decidono di fargli avere, potrebbero in qualche modo trovarsi invischiati in una spiacevole discussione con il Governo USA, che potrebbe mettere in discussione il fervore del loro patriottismo. E così rompono i rapporti con Wikileaks, che d’ora in poi probabilmente dovrà forse tirare avanti con le banconote inviate per posta.

Ma questa volta gli amici e i simpatizzanti di Assange non sono rimasti con le mani in mano: mercoledì 8 dicembre il collettivo Anonymous (noto per aver attaccato con successo Scientology e Gene Simmons della rock band Kiss) ha avvitato una massiccia campagna di attacchi informatici ai danni di target percepiti come “nemici” di Wikileaks (o semplicemente ignavi pronti ad allinearsi alla prima bacchettata delle autorità), tra cui Mastercard, PayPal e le Poste Svizzere, che hanno chiuso il conto di Assange con il pretesto che egli ha dichiarato il falso quando ha aperto il conto sostenendo di essere residente nella Confederazione Elvetica.

Secondo il Washington Post, il sito di Mastercard è andato giù, anche se le transazioni con la carta non sono state interrotte. Un membro di Anonymous, sentito dal Post, racconta al quotidiano che nell’organizzazione non sono cambiati i metodi, ma solo il livello di sostegno dei cittadini: tanto che, “con questi numeri, attaccare una blue chip come Mastercard è un obiettivo a portata di mano”.

Del resto, poiché si parla qui di azioni dimostrative che mirano a rallentare un servizio e non a “distruggere una proprietà privata”, di boicottaggio si tratta e non di attacchi informatici portati avanti da criminali o addirittura da governi, come dice Marc Rotenberg, direttore della ONG Electronic Privacy Information Center di Washington in un’intervista allo stesso Washington Post.

In definitiva, finora gli attacchi degli amici di Assange hanno avuto molto più successo di quelli tentati da tutti i governi nei confronti della creatura del trentanovenne australiano: segno che, per nostra fortuna, quando l’arroganza e l’imperizia convivono in modo così perfetto nelle stanze dei bottoni, esiste un limite alla repressione del dissenso.

 

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