di mazzetta

Facili profezie quelle che vedevano il presidente Zardari correre incontro al fallimento prima ancora che il suo partito vincesse le elezioni. Gli Stati Uniti avevano lavorato a lungo per offrire un'uscita onorevole a Musharraf, l'ex capo dell'esercito golpista sarebbe diventato presidente e Benhazir Bhutto avrebbe potuto correre alle elezioni grazie alla rimozione del limite dei mandati e alla condanna all'esilio che aveva accettato invece di finire in galera per corruzione.

L'accordo lasciava fuori l'ex primo ministro Sharif, nelle stesse condizioni di Bhutto, ma il suo partito non era negli interessi degli americani. L'idea degli americani era quella di una transizione verso un governo  capace di sottomettere l'esercito all'amministrazione civile e di allontanarlo da suggestioni e personaggi troppo vicini all'islamismo radicale, con il quale ormai da decenni i potentissimi servizi segreti pachistani intrattengono rapporti utilitaristici quanto evidenti.

Benhazir però è morta in una strage che ha colpito il suo corteo elettorale e al governo ci è andato il marito, “Mr 10%”, come lo chiamano i pachistani. Da allora si può dire che non ne abbi presa una, ha fatto cadere Musharraf dalla carica presidenziale e accettato il ritorno di Sharif spingendo in teoria il paese verso la democrazia, ma ha fatto ha testate con l'apparato giudiziario sostenuto dall'opinione pubblica, si è rivelato come d'abitudine più incline a badare ai propri interessi che a quelli del paese e il paese è affondato come prevedibile.

Per gli americani non ne è venuto niente di buono, l'esercito pachistano ha accettato l'intervento americano sul territorio nazionale e ha lanciato una grande offensiva contro talebani e associati senza che le cose migliorassero stabilmente.

Poi sono arrivate le alluvioni, e mentre Zardari stava nella sua casa a Parigi i pachistani hanno potuto contare solo l'esercito, il governo è rimasto afono e impotente. Tanto afono che nel mondo la catastrofe pachistana ha avuto un'eco relativa, come relativamente congrui sono stati gli aiuti internazionali per i soccorsi, appena più congrui delle scarsissime donazioni in moneta sonante. Se a giustificare parzialmente la taccagneria Occidentale ci può essere l'impressione che il Pakistan sia un paese nemico abitato da nemici, per il resto del mondo vale la regola che dare denaro al governo Zardari significa arricchire il presidente.

Così siamo da capo, i pachistani guardano di nuovo all'esercito come all'elemento unificante e costituente dello stato, l'unica istituzione affidabile, onesta, moderna e laica per quanto profondamente musulmana. Il che pone ancora una volta le condizioni ideali per un golpe che, a fronte di un tale fallimento, più d'uno considera già necessario. Per i pachistani, piagati da un sistema politico, tipicamente asiatico, nel quale i partiti fanno capo a un'oligarchia corrotta che si riproduce lungo le linee delle dinastie familiari più in vista, l'esercito è per definizione “meno corrotto” delle alternative civili.

L'esercito, al quale storicamente è stata affidata senza interferenze anche la “difesa” dall'India, è stato a lungo il vero gestore della politica pachistana e, come in Turchia, ha sviluppato una mistica sui suoi doveri verso il paese. Mistica che prevede il dovere di salvare il paese quando i ladroni esagerano, il che nella storia pachistana accade invariabilmente a scadenze abbastanza regolari.

Il nuovo capo dell'esercito e papabile dittatore è il generale Kayani, istruito nelle accademie occidentali e considerato ben disposto verso gli Stati Uniti, almeno fino a prova contraria. Prova contrari che sembra essere stata raggiunta in questi giorni, quando il Pakistan per protestare contro i bombardamenti americani sul suo territorio, prima con i droni e ora con gli elicotteri, ha chiuso il passo del Kyber e tagliato i rifornimenti agli americani. Per una notevole coincidenza gli americani hanno anche perso un intero convoglio che trasportava benzina, colpito in Pakistan da un gruppo di militanti non ancora identificato.

La pressione americana non aiuta, dall'amministrazione arrivano indicazioni spesso dissonanti e Obama sembra quasi intenzionato a spostare il baricentro dei combattimenti in Pakistan, almeno stando ad alcune sue dichiarazioni in questo senso e all'osservazione dell'aumento degli attacchi in Pakistan. I generali pachistani però dispongono del temibile deterrente atomico e un attacco aperto al Pakistan è impensabile perché non è possibile paralizzare le capacità nucleari pachistane. Il nucleare, voluto per fronteggiare la minaccia indiana e finanziato da Arabia Saudita, Iran e Libia è tanto caro ai militari pachistani, che negli anni lo hanno coccolato e ne hanno tratto grandi soddisfazioni e prestigio.

Per questo quando nel 2003 si è scoperto “ufficialmente” il traffico nucleare verso Libia e Iran, Musharraf ha accusato di tutto un solo scienziato, il padre del nucleare pachistano. Nello stesso momento in cui Musharraf accusava lo scienziato in televisione, ne annunciava il perdono. A. Q. Kahn, il padre del nucleare pachistano, si è fatto un po' di domiciliari e ora è di nuovo sulla cresta dell'onda.

Nessuna americano ha potuto interrogarlo, nonostante a Washington volessero tanto. Lo stesso Musharraf, pur deposto e oggetto di gravi accuse, vive libero e sereno, molto più di prima, quando da dittatore è stato bersaglio di almeno sei attentati di quelli seri e pesanti.

Difficilmente Kayani si discosterà dalla tradizione pachistana, probabilmente tratterà a viso aperto con gli Stati Uniti mettendo sul tavolo le inderogabili esigenze dell'esercito pachistano, identificandole con l'interesse nazionale. Zardari è ormai appeso alla volontà dell'esercito, privo di legittimazione morale e il suo governo è sostenuto solo dai pochi che non si rassegnano alla gestione militare, mentre i partiti politici cercano impossibili alchimie e inedite alleanze per sostituirlo. Un compito improbo, in un panorama politico frammentato e paralizzato dai veti incrociati di un'oligarchia incapace di evadere un copione, che la vede corrotta e inadeguata ai compiti che si è riservata.

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