di Michele Paris

Con la recente approvazione della riforma delle norme che regolano Wall Street, Barack Obama sembrerebbe aver brillantemente mandato in porto un’altra delle ambiziose promesse lanciate due anni fa in campagna elettorale. Nonostante a quest’ultimo presunto successo vadano aggiunti almeno quelli della riforma sanitaria e del pacchetto di stimolo all’economia, che pare abbia creato o salvato tre milioni di posti di lavoro, il livello di gradimento del presidente tra gli elettori a meno di quattro mesi dalle elezioni di medio termine appare comunque in caduta libera.

Nell’ultima settimana, sui media liberal d’oltreoceano si sono moltiplicati gli interventi dei commentatori progressisti, i quali si interrogano sul mistero dei pessimi numeri evidenziati dai sondaggi di opinione per l’inquilino della Casa Bianca. E le spiegazioni fornite quasi mai centrano il problema. La colpa sarebbe da attribuire alla stampa che non ama Obama e il suo entourage o, al più, a una fallimentare strategia di comunicazione da parte di questi ultimi.

Ciò che manca è invece la vera natura della questione e cioè la crisi irreversibile in cui versa il sistema rappresentativo statunitense, all’interno del quale il presidente democratico ha completamente disatteso quel desiderio diffuso di cambiamento che gli aveva permesso di conquistare un clamoroso successo elettorale nelle elezioni del 2008.

L’allarme più recente per l’amministrazione Obama è suonato con la pubblicazione del sondaggio periodico condotto da Washington Post e ABC News lo scorso 13 luglio. Secondo questa consultazione, Obama sarebbe sceso a circa il 50 per cento nel livello complessivo di approvazione tra gli elettori, un record negativo dall’inizio del suo mandato. Sul fronte dell’economia le cose vanno anche peggio, con il 43 per cento che apprezza la sua gestione e il 54 per cento che la disapprova. Addirittura un terzo dei sostenitori del Partito Democratico assegna ora un voto negativo al presidente nel rispondere alla crisi economica. A conferma della delegittimazione del sistema politico di Washington, poi, c’è un significativo 36 per cento di intervistati che dichiara di non nutrire alcuna fiducia sia in Obama che nei membri del Congresso, siano essi democratici o repubblicani.

Le ragioni dello sconforto di buona parte degli americani, a ben vedere, si possono facilmente comprendere da una rapida analisi dei principali provvedimenti o “riforme” che hanno segnato i primi diciotto mesi dell’attuale amministrazione democratica. Un esame che parallelamente rivela anche quali siano le vere forze e gli interessi che muovono gli ingranaggi di Washington, ai quali i rappresentanti di entrambi i partiti rispondono pressoché esclusivamente. Una dinamica a tratti inquietante che la maggioranza degli elettori sembra aver compreso perfettamente.

La storica presidenza Obama era iniziata nei primi mesi del 2009 con l’approvazione di un piano di spesa da 787 miliardi di dollari per rianimare un’economia sull’orlo del baratro dopo il tracollo finanziario dell’autunno precedente. Se il discusso pacchetto ha contribuito in minima parte ad alleviare le conseguenze della crisi, molti economisti si sono trovati concordi nel ritenerlo insufficiente, tanto da non essere stato in grado di ridurre sensibilmente il livello di disoccupazione che oscilla infatti attorno al dieci per cento da oltre un anno a questa parte.

La gran parte del primo anno di Obama alla Casa Bianca è stata però monopolizzata dalla discussione attorno alla riforma sanitaria, obiettivo al centro dei programmi di tutti i candidati democratici fin dal fallito tentativo dell’amministrazione Clinton nei primi anni Novanta. Approvata finalmente lo scorso marzo, la nuova legge nulla ha fatto per implementare un sistema pubblico e universale che avrebbe potuto garantire la copertura sanitaria a tutti i cittadini americani. Il provvedimento si è risolto piuttosto in un colossale trasferimento di denaro pubblico alle compagnie di assicurazione private sotto forma di contributi ai redditi più bassi per l’acquisto di nuove polizze, che non sempre risulteranno accessibili né garantiranno la qualità dei servizi erogati.

La vittoria dei giganti delle assicurazioni private in ambito sanitario, inevitabilmente, ha fatto il paio con quella dei colossi di Wall Street dopo la recentissima firma posta da Obama sulla travagliata normativa che avrebbe dovuto fissare regole rigorose per i principali responsabili del disastro economico e finanziario del 2008. Anche in questo caso, ciò che i media hanno propagandato come la più comprensiva riforma del sistema finanziario dai tempi del New Deal, si è risolta in centinaia di regolamenti sostanzialmente dettati dai lobbisti di Wall Street che verranno puntualmente elusi in fase di attuazione della legge stessa.

Con le grandi banche che finanziano in larga misura i membri del Congresso, così come la conquista della presidenza da parte di Obama, non è sorprendente il fatto che gli autori della cosiddetta riforma abbiano cercato in tutti i modi di consentire loro di continuare ad operare in totale libertà, indebolendo quei provvedimenti che avrebbero potuto mettere al sicuro i cittadini dai comportamenti più rischiosi.

Perciò, ad esempio, il testo finale non prevede la possibilità di smembrare le mega-banche a rischio di fallimento che minacciano la tenuta del sistema, così come non è stata ristabilita la separazione tra banche commerciali e banche d’investimento - un caposaldo della legislazione degli anni Trenta, smantellato durante la presidenza Clinton - né è stato fissato un tetto ai compensi dei dirigenti delle istituzioni finanziarie e, nemmeno, limiti significativi al mercato dei derivati.

Per quanto queste iniziative, così come molte altre, abbiano di fatto favorito i grandi interessi economici e finanziari, l’amministrazione Obama si è vista recapitare da subito accuse di pseudo-socialismo, d’irresponsabilità nel gonfiare il deficit pubblico e di essere irriducibilmente anti-business. Critiche assurde, com’è ovvio, vista l’influenza smisurata dei poteri forti anche sull’establishment democratico, ma che hanno permesso ai repubblicani di plasmare il dibattito politico negli Stati Uniti. In questo modo, ogni provvedimento della maggioranza e della Casa Bianca è stato dipinto come una pericolosa espansione dei poteri del governo federale o una dispendiosa nuova voce di bilancio volta ad allargare pericolosamente i cordoni della spesa pubblica.

Se a tutto ciò si aggiunge il crescente malcontento per una guerra in Afghanistan senza prospettive e le ripercussioni causate dagli effetti della marea nera nel Golfo del Messico (i vertici della BP, tra l’altro, hanno contribuito massicciamente al finanziamento della campagna elettorale di Obama nel 2008), gli scarsi indici di gradimento del presidente non rappresentano una sorpresa. Una situazione che con ogni probabilità produrrà una sonora sconfitta per il suo partito nelle elezioni per la Camera e una parte del Senato il prossimo novembre e, di conseguenza, un’ulteriore svolta a destra per poter attuare il resto del programma con il consenso di un rinvigorito Partito Repubblicano.

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